Non si spara più da qualche giorn

o,  ma non illudiamoci che sia finita qui. Tra Thailandia e Cambogia, come  ha detto ieri il primo ministro cambogiano Hun Sen, “ormai è guerra”.  Tutto per colpa di un tempio indù vecchio oltre 900 anni e conteso da  decenni. Quasi tre anni di scaramucce militari hanno causato almeno 20  morti – ma è diffuso il sospetto che siano anche il quintuplo. Quelli  dello scorso fine settimana (3 thailandesi e 5 cambogiani morti) sono  però stati gli scontri più violenti, e lo spazio per la diplomazia  sembra ridursi sempre più. 
  Sono tornato a Bangkok ieri sera, dopo alcuni giorni dalla parte  thailandese della frontiera. Sono ripartito con un senso di assurdità  per questa situazione, e di amarezza nel constatare come i rispettivi  nazionalismi e i giochi a fini di politica interna alla fine causino  sofferenza – in totale si contano oltre 20 mila evacuati, che ora stanno  rientrando  nelle loro case - a contadini innocenti da entrambi i lati del confine,  che hanno vissuto intorno a quelle terre contese da decenni.
   Il Preah Vihear (Khao Phra Wiharn per i thailandesi) è stato assegnato  alla Cambogia dall'Onu nel 1962. E allora perché è conteso ancora oggi,  direte voi? Innanzitutto per il pasticcio di non aver mai attribuito con  certezza 4,6 chilometri quadrati di territorio circostante, con  un'entrata ben più agevole dalla parte thailandese che da quella  cambogiana. E poi perché i nazionalisti thailandesi possono appellarsi  allo scherzetto che gli combinarono i francesi a inizio Novecento,  tracciando la frontiera tra il regno di Siam e l'Indocina francese: la  linea coincideva con lo spartiacque su quelle colline, salvo allargarsi  per inglobare il Preah Vihear dalla parte francese. Il problema, per i  thailandesi, è che non dissero niente per oltre quarant'anni.
   Dal 2008, quando l'Unesco dichiarò il tempio Patrimonio mondiale  dell'umanità, i nazionalisti thailandesi si sono impuntati sulla  questione. Parlano di “perdita di territorio nazionale”, tirano fuori  mappe di cento anni fa. Ora, dopo gli ultimi scontri, incitano  apertamente a invadere la Cambogia, prendersi i templi di Angkor Wat e  poi costringere Phnom Penh a cedere in cambio il Preah Vihear. E'  fantapolitica, e i nazionalisti in piazza da due settimane davanti alla  sede del governo di Bangkok non sono mai più di due migliaia. Ma fanno  rumore; e dato che in molti vedono nelle loro proteste del 2008 il  “lavoro sporco” che contribuì alla caduta di due governi sgraditi  all'establishment militare-monarchico, non vanno sottovalutati. Anche se  ora il governo di Abhisit Vejjajiva è quello teoricamente più vicino  alle loro posizioni, lo attaccano senza pietà imputandogli di essere  debole sulla questione.
   Un'analisi sul “perché ora?” richiederebbe un altro pezzo sulla  politica interna thailandese. Dietro questo atteggiamento c'è comunque  un senso di superiorità e un nazionalismo radicato da decenni, frutto di  una propaganda basata su una rivisitazione della storia a vantaggio  dell'establishment; e da parte cambogiana, il risentimento di essere  trattati come poveri bifolchi, nonché privati della gloria dell'impero  Khmer.
   I thailandesi – specie l'elite sino-thai di Bangkok - si sentono  migliori dei cambogiani, che hanno la pelle più scura, strane credenze  animiste mescolate al loro buddismo, e sono molto più indietro  economicamente: “Devono aver finito i proiettili”, mi ha detto  sghignazzando un autista thailandese alla frontiera commentando sulla  calma dopo gli scontri, riferendosi ai soldati cambogiani. Soprattutto,  vedono la Cambogia come una ex provincia  del regno di Siam (che si estendeva all'incirca sul Laos e la Cambogia  di oggi) e ancor prima della mitica “Suvarnabhumi” (“terra d'oro”) - una  specie di Eden tropicale mai esistita nei termini in cui la descrivono  qui. Così, anche un antico impero indù di architettura tipicamente Khmer  – quando i thailandesi per come li intendiamo oggi non erano ancora  calati su questa regione dalla Cina – diventa “eredità storica thai”  agli occhi dei nazionalisti. E anche se non vanno in piazza, in molti  condividono questa mentalità.
   Questa arrogante ignoranza infastidisce i cambogiani e i laotiani; e  sul tempio, è come se i thailandesi raccontassero a se stessi un'altra  verità, senza badare alle decisioni degli organi internazionali. Mentre  Phnom Penh protesta all'Onu, il governo di Bangkok sostiene che la crisi  si può risolvere bilateralmente: l'atteggiamento – in questa e in altre  situazioni dove la posizione ufficiale è ampiamente attaccabile - è  sempre della serie “non avete le corrette informazioni, noi thailandesi  sì”. Oggi la Thailandia si è anche opposta a una visita al tempio da parte dell'Unesco: “Complicherebbe la situazione”, hanno detto – e probabilmente è vero, ma per loro.
   Così, la speranza che le due parti si mettano al tavolo delle  trattative al momento è davvero bassa. Sul Preah Vihear ci sono due  verità, due confini disegnati in maniera diversa nelle mappe a  disposizione dei due contendenti. Anche nel caso la crisi rientri e le  armi tacciano, la questione verrà semplicemente messa da parte, non  risolta. Un atteggiamento - questo del mettere la polvere sotto il  materasso, invece di pulire – comune da queste parti; il problema è che  così, la polvere si accumula. Prima o poi torna fuori, ed è ancora  peggio.
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