venerdì, gennaio 22, 2010

Hmong un caso mondiale, “La legge è legge”, dicono in Thailandia.

Hanno pagato con l’isolamento e l’esilio l’appoggio dato agli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Oggi la Thailandia li rimpatria in Laos. Dove sono perseguitati perché cristiani

Fonte: http://www.tempi.it/esteri/008300-l-esodo-dei-hmong

È calato il silenzio sul campo profughi di Huay Nam Khao e sulle colline della “Svizzera della Thailandia” ora si parla solo thai. L’area che ospitava i Hmong laotiani è stata isolata il 28 dicembre da 5.000 soldati e poliziotti, gli abitanti deportati in Laos e le capanne rase al suolo. I media confinati a chilometri di distanza. Il giorno dopo, i 4.300 profughi, quasi tutti anziani, donne e bambini, erano già oltre un confine per loro proibito dopo la fuga di mesi o anche anni prima e sono scomparsi agli occhi della comunità internazionale. Un fatto drammatico passato sotto silenzio nel mondo. Un evento, tuttavia, che, come sottolineato dalle organizzazioni umanitarie, non solo ha messo a repentaglio la vita di persone inermi, ma pone un preoccupante precedente di rimpatrio “legale” verso un paese conosciuto per il suo atteggiamento persecutorio. Poche le reazioni in Thailandia. Per un’opinione pubblica anestetizzata da proclami nazionalisti e da troppe divise in mostra ovunque, distratta dalla povertà crescente e dalla fuga degli investitori, Europa e America sono sempre più lontane, la crisi troppo vicina e le sue ragioni in parte troppo evidenti e radicate per reagire.
Perché, poi? Il buddhismo che rappresenta in Asia una grande forza libertaria e coesiva, in troppi casi diventa supporto a pretese nazionaliste e xenofobe. I Hmong sono sei-otto milioni, divisi in numerosi paesi, in Cina la maggioranza. Religiosamente sono in parte buddhisti e in parte animisti, con una forte componente cristiana, evidente in particolare tra i Hmong vietnamiti: 150 mila battezzati su 800 mila. Sono circa 450 mila i Hmong in Laos (la quarta maggiore etnia sulle 47 censite). Ovunque sono fortemente controllati e sovente perseguitati. La loro “colpa” risiede nella diversità etnica e religiosa, ma anche nell’aver preso le parti degli americani nel conflitto indocinese. In cambio di promesse di autonomia e benessere hanno condotto la guerra a modo loro, nella foresta, senza concedere tregua e senza aspettarsela, con oltre 50 mila caduti. Alla fine si ritrovarono ad affrontare da soli i comunisti vittoriosi del Pathet Lao. Mentre Van Pao, generale dell’esercito reale e a capo delle operazioni di “guerra segreta” coordinata in Laos dalla Cia, fuggiva negli Usa con alcune migliaia di combattenti, oltre 300 mila Hmong cercarono rifugio in Thailandia e da qui in paesi terzi.
Altri tempi, altre necessità, forse anche una diversa cultura dell’accoglienza, più efficace anche la pressione internazionale. Difficile dimenticare le sofferenze inflitte dai pirati thailandesi ai boat-people vietnamiti e cambogiani, ma da riconoscere che l’ospitalità offerta da Bangkok ha salvato migliaia di vite e garantito ai sopravvissuti un rifugio in attesa dell’espatrio definitivo. In Thailandia, l’ultimo campo ufficiale era stato chiuso nel 2005 e gli ultimi 15 mila ospiti ricollocati negli Stati Uniti. Tuttavia le condizioni nel paese d’origine hanno spinto negli ultimi anni altre migliaia di disperati ad attraversare il confine, finendo per essere catturati e inviati a Huay Nam Khao, nella provincia centrosettentrionale di Petchabun dove, negli ultimi tempi, la loro situazione è andata peggiorando. Da oltre un anno vivevano in attesa di conoscere i tempi del rimpatrio, il loro destino già segnato. A maggio 2007 la Thailandia aveva sospeso le verifiche dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) che stabilivano o meno lo stato di rifugiato politico, facendo di tutti i nuovi arrivati degli illegali, un “problema senza fine” nelle parole dell’allora premier, il generale Surayudh Chulanont. Precluso l’accesso dei campi alle organizzazioni umanitarie. Medici senza Frontiere – unica approvata – si era ritirata qualche mese fa per protesta contro le richieste delle autorità, che permettevano l’ingresso di generi alimentari, ma imponevano il silenzio totale sulle condizioni nel campo e sulla causa dei profughi. In compenso – ha tranquillizzato Bangkok – secondo gli accordi, il Laos aprirà all’Acnur i centri d’accoglienza (ufficialmente indicati dal governo di Vientiane come “centri di rieducazione”). Una possibilità finora mai realizzatasi per precedenti gruppi di rimpatriati.
Un altro elemento: nel caso dei Hmong, Bangkok giustifica il rimpatrio con lo status (da essa concesso) di immigrato per ragioni economiche e non riconosce le ragioni umanitarie, richieste con forza da molti paesi. “La legge è legge”, dicono. Peccato che lo stesso ragionamento non valga per centinaia di migliaia di birmani illegali che nell’antico Siam sono manovalanza necessaria e a basso costo, ma anche valvola di sfogo dalle tensioni per il regime birmano che ha nella Thailandia un partner privilegiato. La cacciata nel mare infestato dagli squali di centinaia di birmani di fede musulmana e di etnia Rohingya in fuga dalla miseria dei campi del musulmano Bangladesh verso le musulmane Malaysia e Indonesia lo scorso anno aveva costretto persino il governo a riconoscere di non avere alcuna presa sui militari che non solo gestiscono la vita economica del paese, ma anche la sua “sicurezza”.

Porte chiuse anche negli Usa
A chiudere definitivamente le porte alle speranze dei Hmong, l’atteggiamento internazionale. Bangkok sostiene che, nonostante le sue pressioni, le barriere poste da Washington all’accoglienza di nuovi rifugiati sono rimaste alzate. Indubbiamente, le leggi anti-terrorismo in atto negli Usa successivamente all’11 settembre 2001, hanno complicato la situazione. Dopo un aspro braccio di ferro tra l’amministrazione Clinton, fautrice del rimpatrio dei profughi sotto garanzie del governo laotiano e i repubblicani che spingevano per l’accoglienza incondizionata, alla fine degli anni Novanta tutti i restanti Hmong nei campi in Thailandia avevano ottenuto il permesso di entrare negli Usa. Le comunità Hmong in California, Minnesota e Winsconsin – sfondo al recente film diretto e interpretato da Clint Eastwood Gran Torino – sono in pratica raddoppiate in un decennio. Garantita la loro sicurezza, le statistiche segnalano che i 200 mila Hmong naturalizzati Usa vivono al 40 per cento sotto la soglia della povertà e che solo il 60 per cento dei giovani termina il ciclo delle superiori. «Per troppo tempo il popolo Hmong ha dovuto confrontarsi con aspetti negativi delle leggi anti-terrorismo Usa – diceva qualche tempo fa il senatore Norm Coleman del Comitato per i rapporti con l’estero del Senato statunitense. Certamente i rifugiati Hmong meritano di meglio». Certamente, ma oggi, chiuse le porte dell’accoglienza in Thailandia, ai Hmong laotiani non restano vie d’uscite. Al punto che il vecchio Van Pao, attraverso intermediari aveva cercato un accordo per potere tornare in Laos il 10 gennaio e consegnarsi alle autorità in cambio dell’avvio di colloqui di pace tra il governo e la sua etnia. Ha dovuto desistere davanti alla pretesa che, se dialogo vi deve essere, deve passare attraverso la preventiva applicazione della pena capitale che pesa sulla sua testa.
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