domenica, maggio 30, 2010

Cerchiamo di capire la Thailandia del dopo proteste rosse.

la rivolta di Bangkok e il ruolo dei boss.

di Raimondo Bultrini Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/

Il ruolo di Por Pratunamalias, alias Phaijit Thammarotphinit, e del suo impero del malaffare negli scontri. I suoi rapporti con l’ex premier esule Thaksin Shinawatra. I problemi di una società feudale dov’è permesso ai ricchi di sfruttare i poveri col potere dello Stato. Il record delle 480 Ferrari.
BANGKOK – Nelle cronache delle sanguinose rivolte al centro di Bangkok, il nome di Phaijit Thammarotphinit uscì solo di sfuggita. Era nella lunga lista di amici, parenti stretti (figlia compresa) e soci d’affari dell’ex premier esule Thaksin Shinawatra messi al bando dal governo per ogni genere di transazione commerciale o finanziaria.

Nel comunicato con cui lo si accusava di finanziare e supportare le camicie rosse non si usava il suo soprannome, Por Pratunam, ben più conosciuto di quello vero. Vuol dire il boss di Pratunam, una delle aree del distretto commerciale occupate dalle camicie rosse e poi espropriate dall’esercito.

Ma l’impero di Por Pratunam non si estende solo nel centro cittadino dove possiede palazzi e sale massaggi rimasti illesi negli scontri. Comanda anche ogni attività criminale della baraccopoli di Kloen Toi, dove ragazzini dai cinque, sei anni in sù possono essere assoldati per qualsiasi ordine, dalla distribuzione di droga all’omicidio, al sesso con gli adulti. Quando a metà maggio la lunga via Rama IV ha iniziato a bruciare del fumo acre dei copertoni e del petrolio, è da Kloen Toi che è partita la miccia innescata dall’ala dura delle camicie rosse, con un effetto immediato e diretto qualche chilometro più avanti sulla stessa strada rettilinea a quattro corsie, sotto ai palazzi scintillanti della finanza thailandese.

Non è secondario partire dal caso del boss mafioso per capire parte della grande sfida nascosta - ignota anche alle camicie rosse più naÏve - di questa rivolta che si è consumata con un numero miracolosamente “basso” di vittime, 88, e una serie di danni economici e sociali dagli effetti difficilmente rimarginabili a breve. Por Pratunam è diventato col tempo un potente finanziere collocato spesso al di sopra della legge, soprattutto grazie alle strette e ambigue relazioni d’affari con uomini politici potenti e corrotti, compreso l’ex premier esule Thaksin, oggi ricercato con un mandato d’arresto per istigazione al terrorismo e all’insurrezione.

Narrano le cronache del febbraio 2006 che Thaksin andò su tutte le furie quando l’impero di go-go bar, bordelli camuffati da saloni di massaggio e sale da gioco appartenenti a Por Pratunam era stato raso al suolo su ordine del capo della polizia distrettuale Seripisut Temiyavej. “L’ufficiale non aveva il diritto di oltrepassare la sua proprietà”, fu il commento dell’ex premier ancora in carica.

Quello stesso anno a settembre, una giunta militare
prese il potere con un golpe incruento e Temiyaveji fu messo però a capo della polizia nazionale. Ma dopo le prime libere elezioni, Thaksin vinse di nuovo e il suo premier di fiducia (Samak) licenziò su due piedi l’ufficiale, l’unico che si era opposto al boss dei boss.
Por Pratunam tornò così a fare i suoi affari più o meno impunemente come prima, con un doppio debito di riconoscenza verso Thaksin e – va da sé – i suoi uomini raccolti nel movimento delle camicie rosse. Non a caso il suo feudo di Kloeng Toi è stato il bastione di resistenza anti-governativa più forte al di fuori del distretto commerciale occupato di Ratchaprasong.

Per il senatore del Partito democratico Kraisak Choonhavan questi intrecci di personaggi e interessi sono però solo il corollario di una realtà che ancora tiene il Paese sull’orlo di una guerra civile latente. “Se i leader rossi sono giunti a invitare esplicitamente al saccheggio dei negozi e al linciaggio dell’attuale primo ministro Abhisit, dobbiamo riconoscere che anche il mio partito ha delle responsabilità per non essere stato in grado di aiutare e attrarre gli strati più poveri”.

Thaksin – ricorda il senatore Kraisak - ha finanziato 15mila villaggi con un milione di baht ogni anno da gestire autonomamente, oltre a imporre a tutte le banche di aprire uno sportello per i prestiti agrari, anche per chi non aveva nemmeno un pezzo di terra da dare in garanzia. Per ottenere i soldi non serviva indicare la spesa, e per questo ognuno li ha usati come gli pare, comprando magari ripetitori satellitari e telefoni cellulari prodotti da Thaksin, motorini, frigoriferi, e spesso indebitandosi fino al collo. Per non perdere tutto molti hanno fatto altri debiti con i quali ripagare quelli vecchi, finché il golpe del 2006 non ha bloccato la catena, lasciando molte famiglie in estrema difficoltà.

Poi sono tornati al governo gli uomini di Thaksin con una nuova politica di prestiti facili, finché il potere non è rientrato nelle mani del mio partito, i Democratici”. “Abbiamo ristretto nuovamente i fidi senza garanzia – spiega il senatore – senza però risolvere il problema all’origine, anzi fissando una lista ristretta di beni da poter acquistare col prestito. Il controllo è stato affidato ai capi delle amministrazioni locali fedeli al Partito, e molti corrotti se ne sono approfittati intascando così parte dei soldi destinati ai bisognosi”. Ma conseguenze ancora più gravi – spiega Kraisak – “sono venute dall’accentramento del potere di decisione al centro, accrescendo il malcontento della periferia”.

Il senatore ammette senza mezzi termini che la Thailandia è ancora una società feudale dov’è permesso ai ricchi di sfruttare i poveri col potere dello Stato. “Fino al 1932 (data delle concessioni costituzionali dei monarchi thai, ndr) ogni singolo ministro era autorizzato a prendersi enormi appezzamenti senza obblighi e tasse. I ministri delle Risorse e delle Terre potevano dichiarare ogni zolla terra pubblica e usarla a proprio beneficio. Il ministro delle Risorse e dell’ambiente poteva addirittura vendere isole e montagne, espropriando anche quei contadini che avevano regolari licenze di proprietà”.

Kraisak spiega che solo dal 1998 c’è una legge per restituire le terre sequestrate, una riforma scritta dai Democratici e passata anche col voto dell’opposizione. Ma finora non ci sono state applicazioni significative, e nel frattempo i ricchi possono contare su altre risorse, mentre i poveri hanno solo i loro campi. Come parte della Commissione per censire le terre espropriate illegittimamente – racconta Kraisak – “ho scoperto che in tre province tutti i terreni appartenevano a un solo ministro, il responsabile dell’allora Difesa militare. Possedeva 5 milioni di rai (oltre 7 milioni di ettari) che affittava regolarmente ai contadini. Ma non è tutto. Dal 1937 gran parte delle terre agricole ancora appartiene all’esercito”.

Il senatore, navigato da molte battaglie per i diritti umani e figlio di un ex primo ministro molto vicino al re, sa bene che le cose di cui parla sono anche all’origine del risentimento popolare espresso dai militanti delle camicie rosse e dei loro simpatizzanti. Ma sa anche che ogni possibilità di riforma, del resto finora appena abbozzata, potrebbe restare nei cassetti per un periodo ancora più lungo del previsto, vista la reazione negativa dell’ammat, l’èlite, all’ondata di rabbia sfociata nelle rivolte di Bangkok.

Il legame tra il sospetto mandante dei cortei “anti-elite” Thaksin e il capo della malavita di Kloen Toei svela parte di un progetto segreto e non recente per forgiare spregiudicate alleanze trasversali sfruttando la rabbia del popolo contro i temporanei nemici comuni. Non è un mistero che l’ex premier vorrebbe indietro i suoi soldi sequestrati e la poltrona di primo ministro, così come Por Pratunam spera che aiutandolo a ottenere ciò che vuole possa un giorno riprendersi le aree del centro dov’erano i suoi prosperosi bordelli (le case chiuse e i bar sono stati serrati per qualche giorno solo durante il coprifuoco, e mai durante i mesi delle rivolte).

Anche l’ex comandante rosso Seh Daeng avrebbe voluto indietro le sue stellette e lo stipendio, che gli sono stati tolti dal comando dell’esercito per le sue simpatie verso Thaksin e il supporto militare dato alla sua causa. E’ stato ucciso da un cecchino piazzato su un grattacielo alla vigilia della riconquista di Ratchaprasong da parte dell’esercito, e alla fine ha ottenuto solo un funerale pagato a spese del Re. Non è forse secondario ricordare che anche Seh Daeng – come Thaksin - aveva protestato vivamente a suo tempo per la distruzione dei bordelli di proprietà del comune amico e solidale Por Pratunam.

Eppure nonostante i precedenti di questi personaggi diventati paladini del popolo rosso di Bangkok e del Nordest, a decine di migliaia sono scesi in piazza da un giorno all’altro con uno spirito di martirio mai visto prima. A nessuno di loro è suonata strana nemmeno la decisione di invadere Bangkok all’indomani del verdetto di una Corte che aveva sequestrato un miliardo e mezzo di dollari al paladino dei poveri Thaksin.
Per molti Thaksin è l’unico che nel bene o nel male è stato a sentire e ha capito le lagnanze dei 10 milioni di thai che guadagnano un massimo di 10mila baht annui, 250 euro, un esercito che aumenta anziché diminuire.

Nel regno il 70 per cento delle proprietà è in mano
al 20 per cento delle famiglie, un gap sociale enorme aggravato – come sostiene Kraisak – dalla globalizzazione. “Consideri che nel Nord Est – dice - invece di promuovere i nostri prodotti, che oggi costano tre volte di più, i governi di Thaksin hanno concesso alla Cina una lista di 220 prodotti agricoli, come le cipolle o i cavoli, liberi da dazi. E’ stata una politica devastante per i nostri contadini”.

La Thailandia però importa anche ben altri generi, e vanta una delle più grandi collezioni di Ferrari. Ce ne sono 480, status symbol di un mondo del quale fa parte anche il presunto Robin Hood Thaksin, fotografato a far spese da Luis Vuitton al centro di Parigi, senza apparentemente creare troppo scandalo tra i suoi seguaci.

Nei giorni delle proteste, poco prima del blitz e del ritorno a casa degli ultimi 3000 irriducibili, un leader delle camicie rosse ha detto ai manifestanti che potevano prendere ciò che volevano dai negozi perché “i ricchi si appropriano a spese dei poveri e una volta tanto possiamo farlo anche noi”. Pochi hanno seguito l’invito al saccheggio, ma la rabbia e la frustrazione si sono espresse con la violenza che tutti hanno potuto vedere in tv. Molti tra quelli tornati a casa senza una vittoria né la prospettiva immediata di un cambiamento, sono ora depressi.

E’ il tempo della riflessione dopo le azioni compiute, e potrebbe esserci pace per altri anni. Ma i soldi pompati da politici e mafiosi loro alleati per abbattere il potere di un’èlite e mettercene un’altra, non sono sicuramente finiti, anche se congelati. Per vendicarsi della sconfitta, alcuni fondamentalisti fedeli a Thaksin, Khattyia o all’ex cantante pop Arisman, potrebbero usarli per costruire un movimento sotterraneo in grado di prepararsi a nuove elezioni. L’attuale sigla unificante, sul fronte politico legale, è il Phuea Thai, “per i thai”, guidato oggi da un altro ex premier e generale, Chavalit. Questo non escluderebbe però la coesistenza dell’ala politica e del braccio armato.

Anche se è stato ucciso il Comandante rosso per eccellenza Seh Daeng, c’è un forte nucleo di militanti arrabbiati disposti a incendiare, bombardare, uccidere, sul modello maoista indiano. Sarebbe una scelta in totale conflitto con lo spirito della religione buddhista Theravada praticata da rossi e gialli. Ma il sangue del sangha, la comunità dei cittadini praticanti, è già stato versato nelle strade di Bangkok. “E potrebbe esserlo ancora – conclude Kraisak - se non si mette mano alle riforme più importanti per migliorare la condizione nelle campagne e delle piccole imprese schiacciate dai colossi del commercio”..
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