venerdì, maggio 21, 2010

Osservazioni situazione politica Thailandia

Francesco Sisci per “Limes

L’ultima frontiera della democrazia. Il fallimento del soft power americano, cinese e di tutto l’occidente. Il violento scontro tra camicie gialle e camicie rosse. La paura che il crollo thailandese possa generare un effetto domino nelle zone più fragili del sudest asiatico.

La Thailandia è stata per secoli il ponte economico e culturale tra India e Cina, l’aristocrazia ha nomi di origine sanscrita, la gente mangia curry indiano, ma usa i bastoncini e i suoi imprenditori sono di origine cinese. La sua politica è un concentrato delle due civiltà e forse anche per questo è tortuosa, estremamente complicata, contorta come forse nessuna politica da altre parti del mondo.

La crisi politica thailandese attuale affonda le sue radici in questa tradizione e in questo terreno ed ha certo più strati di una cipolla, per spiegarla semplicemente bisogna cominciare con i personaggi principali e poi le azioni.

Ru Bhumibhol, classe 1928, al trono dal 1946. Il sovrano è il regnante più ricco del mondo, secondo Forbes, con una fortuna di 35 miliardi di dollari, per decenni lui e la sua corte sono stati l’ago della bilancia della politica thailandese ma lo sono stati in maniera defilata rispetto a una partecipazione politica diretta. In altre parole per decenni, in ultima istanza, ha tirato le fila della politica thailandese, attraverso la sua corte guardando passare decine di primi ministri, capi di coalizioni governo molto fragili e raccogliticce, e ben 18 colpi di stato. Il potere del re è controllato dalla costituzione, ma la corona è anche protetta da una legge molto severa sulla “lesa maestà”, che tutela il re in sostanza da ogni critica.

L’equilibrio politico intorno al re si rompe nel 2005 quando Thaksin Shinawatra, per la prima volta nella storia del Siam, ha vinto un secondo mandato elettorale e per di più a maggioranza assoluta. In queste condizioni Thaksin poteva fare a meno del re.

Thaksin Shinawatra, classe 1949. Ex colonnello della polizia, ha lasciato la divisa e si è messo in affari, prima nei computer e poi nella telefonia mobile. A metà degli anni ’90 aveva una fortuna di circa 4 miliardi di dollari ed era padrone della maggiore rete telefonica del Sudest asiatico. Ha però ambizioni politiche e dopo la crisi finanziaria del 1997 fonda il partito “Thai rak Thai” (Thailandesi per la Thailandia) che vince le elezioni del 2001 e del 2005. Per la prima volta attua una serie di politiche a favore della maggioranza rurale del paese: nasce una piccola borghesia dei villaggi che gli rimane fedele. Thaksin però decide anche di tagliare linee di credito a grandi aziende malridotte per la crisi del 1997: la grande borghesia di Bangkok e la gente che sta loro attorno gli diventa ostile.

Thaksin è accerchiato da accuse di corruzione e conflitto di interessi. Dopo la vittoria del 2005 vende la maggioranza delle azioni della sua società telefonica, Shin corp., all’azienda singaporeana Tamasek. Per non pagare tasse effettua la vendita attraverso società all’estero. Questa vendita e le mancate tasse danno origine di una serie di proteste di “camicie gialle”, persone che indossano quel colore in rispetto al re. Sono ultra-monarchici che accusano Thaksin di corruzione (perché non ha pagato le tasse), di tradimento (perché ha venduta la sua azienda a Singapore) e di “lesa maestà”, perché irrispettoso con il sovrano. I gialli chiedono le dimissioni di Thaksin e il ritorno alle urne. Thaksin scioglie le camere va alle elezioni e vince di nuovo. I gialli a questo punto riprendono le dimostrazioni e chiedono semplicemente le dimissioni di Thaksin, che
non recede.

Nel settembre del 2006 i militari organizzano un colpo di stato, il primo dopo 15 anni, durante un viaggio a New York di Thaksin. Thaksin rimane all’estero. I militari fanno una riforma costituzionale, sciolgono il partito Thai rak Thai e bandiscono dalle elezioni oltre cento massimi dirigenti del partito. I due miliardi di dollari della vendita della Shin corp sono congelati. Quindi a dicembre del 2007 indicono nuove elezioni. Fedeli di Thaksin organizzano rapidamente un nuovo partito e vincono le elezioni contro il partito democratico, ben visto dalla corte.

Nel 2008 riprendono le dimostrazioni dei gialli e si aprono dei casi giudiziari contro il premier in carica che viene costretto alle dimissioni. I filo thaksiniani ne nominano un altro ma anche questo subisce lo stesso destino. Intanto Thaksin ritorna in Thailandia, viene però presto chiamato in giudizio per corruzione, ma prima della condanna, ritorna all’estero. La tensione sale, fin quando, alla fine del 2008, alcuni thaksiniani si alleano ai democratici e va al potere il premier Abhisit.

Due questioni rimangono però aperte, la minore, cosa fare della fortuna di Thaksin congelata, e poi una maggiore, come gestire la successione al trono. La corte infatti non vorrebbe come successore il principe ereditario Maha Vajiralonkorn, e preferirebbe invece una delle principesse. Il principe ha infatti una fama pessima di debosciato inaffidabile, mentre le principesse sono virtuose. Ma per cambiare la linea di successione bisogna cambiare la costituzione, cosa non semplicissima. Inoltre Maha è amico di Thaksin. La morte del re potrebbe significare quindi non solo il ritorno di Thaksin ma anche la fine di tanti cortigiani che per anni hanno lavorato per cambiare la legge di successione al trono.

Dall’esilio però Thaksin organizza le camicie rosse, la risposta di movimento alle camicie gialle. Le camicie rosse, guidate da un ex generale, Khattiya, chiedono il ritorno alle urne e elezioni. Le camicie rosse fanno paura al governo composte da contadini militanti delle campagne del bellicoso Nordest, e per il loro leader. Khattiya è il generale con più esperienza di guerra dell’esercito Thai, ufficiale con la Cia degli insorti anti comunisti Hmong durante la guerra del Vietnam. Inoltre la richiesta di nuove elezioni è difficile da rinviare in eterno, e cambiamenti costituzionali, per la successione o per elezioni, sono complicati da portare avanti con una crescente protesta di piazza.

Alla fine del 2009 il governo decide di “punire” Thaksin intentando una causa di confisca della sua fortuna come compensazione per l’accusa di corruzione. Il 26 febbraio del 2010 arriva la condanna: 1,4 miliardi circa sono confiscati, ma anche il resto perde di valore poiché le azioni della Shin corp crollano. Da quel punto in poi le proteste dei rossi si intensificano. In qualche modo Thaksin crede di non avere più nulla da perdere, e suoi luogotenenti pensano di dovere agire prima di essere completamente schiacciati dal governo. Incombe ancora una minaccia infatti: a settembre devono essere rinnovati i vertici militari, il governo che li rinnoverà, al di là del risultato delle elezioni, sarà il vero padrone del paese.

I rossi a marzo intensificano le dimostrazioni chiedendo di andare subito alle urne, il governo resiste ma ad aprile risponde schierando l’esercito. L’esercito in effetti non ha voglia di reprimere le proteste. Sa che scorrerebbe del sangue e i generali sarebbero presto sacrificati dal governo che vorrebbe rifarsi una verginità con ufficiali “innocenti”. Manca poi una fiducia ampia nel sistema. Il re ha 82 anni, è in ospedale da settembre del 2009, potrebbe morire fra poco, tra sei mesi o un anno, ma di certo non durerà moltissimo, del principe si sa, quindi i generali attuali non vogliono sacrificarsi per una corte il cui equilibrio potrebbe presto mutare. D’altro canto proprio la prospettiva della successione mette urgenza agli anti Thaksin: devono eliminare rapidamente i rossi, consolidare la loro guida sull’esercito come premesse poi per eliminare il principe ereditario e sostituirlo con una principessa.

L’esercito si prepara a reprimere e l’8 aprile c’è un primo avvitamento dello scontro. Qualcuno spara granate contro la folla, ci sono decine di morti e 800 feriti, ma il sangue non spaventa i rossi i quali anzi si fanno più determinati, guidati da Khattiya che promette di resistere e sostiene anzi di potere sconfiggere i soldati mandati contro di lui con tattiche di guerriglia urbana.

Dopo la prima prova di forza fallita la situazione traccheggia per oltre un mese con tentativi di colloqui tra rossi e governo e nuovi scontri di piazza, allerte di repressioni ma senza confronti violentissimi come l’8 aprile. Il 12 maggio però un cecchino spara Khattiya alla testa mentre sta parlando con dei giornalisti. Khahttiya morirà poi il 16 senza riprendere conoscenza. Per molti dei rossi significa che non ci può essere più fiducia perché il governo assassina i suoi capi mentre colloqui sono in corso. Abhisit pensa che senza Khattiya la resistenza dei rossi si scioglierà, ma non è così. La situazione però continua a essere confusa perché il 16 maggio Abhisit proclama la legge marziale in alcune parti di Bangkok ma subito il capo dell’esercito generale Paochinda afferma che non c’è bisogno di legge marziale e quindi non la applica.

Le prospettive di evoluzione sono confusissime ma di massima sono le seguenti. Se il governo si “arrende”, richiama l’esercito e proclama subito le elezioni i thaksiniani vincono a grande maggioranza, il potere della corte viene drasticamente ridotto, il principe ha assicurato il suo futuro al trono e di fatto la forma di governo della Thailandia cambierebbe in maniera radicale. Se il governo cerca la soluzione di forza e non si arrende i rossi sono pronti alla guerriglia, il Nord est potrebbe spaccarsi e molti soldati e ufficiali, originari di quella zona, potrebbero disertare. Il paese andrebbe alla guerra civile. Soluzioni intermedie sono possibili, ma tali possibilità si assottigliano con il passare dei giorni perché il governo pensa che se si arrende ha tutto da perdere, mentre i rossi, dopo l’assassinio di Khattiya, pensano che se cedono loro, saranno fatti fuori ad uno ad uno. Si tratterebbe di trovare un’alchimia che salvi qualcuno, ma tale alchimia è difficilissima da trovare.

Le prospettive gravi sono per la regione. La Thailandia era il paese più ricco e democratico del sudest asiatico, se democrazia e benessere saltano qui è possibile che altri paesi, meno stabili e con una tradizione democratica più fragile, possano essere tentati a seguirne l’esempio. Ciò comporterebbe una involuzione politica ed economica in tutta la regione.

Per la Birmania, governata dai generali, sarebbe una benedizione: sarebbero stati dei precursori non un’eccezione nella regione. Per l’America e l’occidente, ansiosi da 20 anni di esportare diritti umani in ogni angolo del pianeta, sarebbe una sconfitta di proporzioni incalcolabili. Avrebbero perso la democrazia e il benessere economico in un paese dove democrazia e benessere sarebbero stati difendibili, la Thailandia, e invece hanno tentato di esportare la democrazia sulla punta dei fucili in Iraq o Afghanistan, con risultati meno che insoddisfacenti. Il soft power americano subirebbe un colpo dolorosissimo. Ma anche il soft power cinese, grande potenza emergente globale, non avrebbe da festeggiare. Pechino da 30 anni ha promosso una politica di stabilità politica, e la Thailandia oggi è tutto fuorché stabile, e anzi rischia di infiammare la regione diminuendo prospettive di scambi economici con la dinamo commerciale e industriale cinese.

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