Bangkok è scossa da moti di piazza da fine ottobre, ai quali il governo ha risposto sciogliendo le Camere e convocando nuove elezioni, che si svolgeranno il 2 febbraio. Come tutta risposta, il principale partito di opposizione boicotterà il voto non presentando candidati. I suoi parlamentari hanno abbandonato il parlamento per unirsi all’insurrezione. Tra marce e tafferugli, i leader della protesta hanno cercato di impedire l’organizzazione delle elezioni, rifiutano ogni dialogo col governo e minacciano di paralizzare Bangkok ad oltranza. L’occupazione dei nodi nevralgici della capitale, cominciata nel pomeriggio di domenica 12 gennaio, a detta dei manifestanti terminerà solo quando essi otterranno quanto chiedono, vale a dire le dimissioni del primo ministro Yingluck Shinawatra, la “sospensione della democrazia” e la nomina di un “Consiglio” composto da personaggi nominati dalle alte cariche dello Stato, al quale verrebbe affidato il compito di “fare le riforme” per “sradicare il regime thaksinista.”
Le proteste sono soltanto l’ultimo round di una serie infinita di analoghi boicottaggi contro governi “thaksinisti,” vale a dire esecutivi guidati da Thaksin Shinawatra o da personaggi a lui legati. La feroce opposizione al “Thaksinismo” da parte di una parte importante, seppur minoritaria, della Thailandia, è una sorta di ‘guerra civile fredda’ che si trascina da nove anni, tra violenza intermittente ed il pericolo costante che le tensioni e gli odi si trasformino in qualcosa di peggiore. Il personaggio centrale di questa storia, il 64enne Thaksin, vive in esilio all’estero in seguito al colpo di stato militare nel 2006, ma il Thaksinismo continua anche senza di lui. A guidare il paese oggi c’è sua sorella minore, Yingluck Shinawatra, che svolge le funzioni di primo ministro in seguito alla vittoria elettorale di due anni orsono. Come il fratello, del quale ha continuato le politiche, anche Yingluck divide il paese tra chi la ama e chi la odia.
[ 11 domande sulle proteste in corso: Thailandia: scontro frontale contro la democrazia ]
Le teorie abbondano sulle cause della polarizzazione che ha causato questo infinito confronto politico, ma sostanzialmente esse possono essere ridotte a due livelli.
Il primo livello ruota intorno alla lotta di classe tra le masse lavoratrici delle province e delle periferie urbane, che sostengono genuinamente il Thaksinismo, ed il blocco borghese ed aristocratico della capitale, che vede in Thaksin come il male assoluto. Questo aspro conflitto sociale va inserito a sua volta nel quadro del processo di democratizzazione del paese asiatico. Il Regno del Siam ha abolito la schiavitù nel 1905, abbandonato la monarchia assoluta nel 1932 in seguito al primo di una lunga serie di golpe militari, è stato ribattezato “Regno della Thailandia” nel 1939, e attraverso decenni di impetuosa crescita economica ha raggiunto un Pil di circa 300 miliardi di euro, che ne fa la 31esima economia mondiale. Nonostante tutto ciò, la nazione non ha mai veramente fatto i conti con il suo passato, e di conseguenza è entrata nella modernità portandosi dietro istituzioni, blocchi sociali ed ideologie che altri paesi hanno spazzato via o neutralizzato nei secoli precedenti. Il risultato di questo ingombrante bagaglio è un paese contraddittorio e schizofrenico, dove un’economica globalizzata, modelli culturali occidentalizzati e stili di vita a volte decisamente liberali convivono e spesso cozzano contro retaggi anacronistici e semi-feudali.
In questo quadro, le radici del conflitto in corso emergono dai profondi cambiamenti economici, sociali e culturali avvenuti negli ultimi decenni.Questi mutamenti, che hanno da tempo rivoluzionato il tessuto sociale e le aspettative dei cittadini, negli ultimi anni hanno finito inevitabilmente per minacciare l’ideologia di stato, centrata su una monarchia semi-divina “protetta” dall’esercito, e con essa la struttura gerarchica piramidale del potere istituita negli anni Cinquanta del Novecento e cementata dalle alleanze geopolitiche della Guerra Fredda. Questo blocco di potere, emerso dalle ceneri della monarchia assoluta e dei successivi esperimenti modernizzatori e fascistoidi degli anni Trenta e Quaranta, nacque come una santa alleanza tra Corona ed esercito ma si allargò presto ad una ristretta classe capitalista sino-thailandese in rapida crescita, un limitato numero di famiglie di mercanti ed industriali che ancora oggi controlla buona parte dell’economia nazionale. Nonostante le crescenti spinte democratiche degli anni Sessanta e Settanta, il blocco di potere non accettò di buon grado il suo ridimensionamento e puntellò il suo dominio con sanguinosi interventi militari e attraverso la sapiente strumentalizzazione di una monarchia sempre più carismatica.
Per quattro decenni i regimi autoritari e semi-democratici appoggiati da Washington hanno garantito una relativa stabilità politica, soprattutto rispetto alle tragedie indocinesi e all’asfittico regime birmano, ed un eccezionale boom economico, che ha rafforzato la lealtà della borghesia verso il regime che aveva ed ha in ia Re Bhumipol Adulyadej il suo simbolo. Questo quadro è mutato radicalmente negli Anni Novanta in seguito alla fine della Guerra Fredda, la grave crisi economica e finanziaria asiatica del 1997-98, e la conseguente ascesa di Thaksin Shinawatra, il miliardario populista che ha sfidato lo status quo proponendo alle masse popolari un nuovo patto sociale per il Ventunesimo Secolo.
Thaksin, magnate delle telecomunicazioni originario di Chiang Mai, si è presentato agli elettori con un partito radicalmente nuovo. Rispetto ai partiti thailandesi della seconda metà del Novecento, semplici gruppi di potere accomunati da interessi particolari e sostenuti da sistemi clienterali, il Thai Rak Thai di Thaksin offriva una chiara piattaforma elettorale, con una serie di progetti di sviluppo e di social welfareall’europea rivolti soprattutto ai ceti popolari e alla nascente piccola borghesia delle province. Nessuno prima – tranne in parte la Corona coi suoi progetti di sviluppo partiti di concerto con la CIA – si era mai occupato davvero delle regioni più povere, soprattutto dell’Isan, il povero nord-est dal quale da sempre proviene gran parte della manodopera a basso costo di Bangkok e delle altre relativamente benestanti città centro-meridionali. Alla sua prima tornata elettorale, nel 2001, Thaksin ottenne una larga vittoria, raccogliendo 11,6 milioni di voti (il 40%). Immediatamente, e sorprendentemente, il nuovo primo ministro rispettò gli impegni presi in campagna elettorale, e nel giro di una legislatura il paese sarebbe cambiato per sempre.
Sanità pubblica semi-gratuita per i servizi ospedalieri di base, prestiti agevolati o addirittura a costo zero praticamente a tutti quelli che ne facevano richiesta, finanziamenti a fondo perduto ai villaggi per la costruzione di opere civili e l’avvio di iniziative locali sotto forma di consorzi per la distribuzione dei prodotti agricoli o artigiani prodotti dalla comunità, riso acquistato dal governo a prezzi superiori a quelli di mercato; queste ed altre misure hanno generato in Isan, la regione più popolosa e meno sviluppata del paese, una crescita del Pil del 41% in 10 anni. Per la prima volta, le classi meno abbienti dell’ex Regno del Siam trovarono un referente politico e con esso la loro forza elettorale. Senza contare che, sul piano dell’immaginario collettivo, la promessa thaksiniana di benessere per tutti sviluppò presto una retorica vistosamente in contrasto con l’economia basata sull’”autosufficienza” proposta da Corona e conservatori. Queste le ragioni, e non la compravendita di voti, della fiducia popolare verso il Thaksinismo.
La sua rielezione nel 2005 con 14 milioni di voti (56%), una percentuale ancora più larga di quella del 2001, è stata la dimostrazione di quanto le sue politiche ‘populiste’ fossero gradite dall’elettorato. L’Isan, popolato da 22 milioni di thai-lao e più di un milione di thai-khmer, etnie che i thai-thai e sino-thai di Bangkok considerano di serie B e chiamano con disprezzo “khon baanok” (masse rurali) o “khwai” (bufali), era diventato una inespugnabile roccaforte thaksiniana: su 136 seggi a disposizione, il Thai Rak Thai se ne aggiudicò 126. Lo stesso nel nord, popolato dai discendenti del Regno di Lanna, dove il partito di Thaksin, nativo di Chiang Mai, conquistò 70 dei 76 seggi a disposizione.
Ma non tutti rimasero entusiasti per l’operato del governo. Il primo ministro perse ben presto le simpatie dell’ultra-monarchica borghesia della capitale, composta in buona parte da sino-thai. La maggioranza dei cinesi è arrivata nell’ex Regno del Siam in tempi relativamente recenti, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di immigrati sbarcati con la classica valigia di cartone, ma che in una o due generazioni è riuscita a fare fortuna. Questo gruppo etnico oggi è il più fedele alla monarchia e il più determinato a conservare il sistema che ha permesso loro di salire rapidamente i gradini della scala sociale. Per queste ragioni essi, che pure in parte avevano appoggiato l’ascesa di Thaksin – ironia della sorte, anch’egli sino-thai – furono dirottati sul fronte anti-thaksiniano da un discorso del re tenuto nel dicembre del 2001, nel quale l’anziano monarca, che secondo la vulgata di stato è al di sopra di ogni contesa sociale, politicamente neutrale e simbolo di tutti i cittadini, espresse chiaramente la sua scarsa stima nei confronti del neo-eletto primo ministro: “Vedo che il primo ministro ha un sorriso triste… forse è felicità all’esterno ma infelicità all’interno,” disse il re. “Credo non abbia idea di cosa fare, perchè non si notano progressi. Molti hanno notato che il paese è in uno stato di disastro invece che di prosperità. Tutto sta andando di male in peggio.”
I cambiamenti sociali, che quando sono rapidi e radicali vengono definiti ‘rivoluzioni,’ non sono sempre guidati da uomini integerrimi. Anzi, scrostando le mitologie dalla storia, essi non lo sono quasi mai, ed anche Thaksin, a modo suo, non lo è stato e non lo è affatto. E’ anche per questa ragione che l’opposizione al Thaksinismo, che trova nei sino-thai di Bangkok i suoi massimi esponenti e i finanziatori più generosi, è ovviamente diffusa anche tra altre etnie, ceti e regioni. Il piglio autoritario del primo ministro, il tentativo di mettere il bavaglio alla stampa e la durezza di alcune sue politiche, su tutte la “war on drugs” che avrebbe causato l’esecuzione sommaria di circa mille uomini accusi di essere trafficanti di droga, hanno fatto storcere il naso di più di un attivista per i diritti umani. Thaksin è stato anche accusato di corruzione, lesa maestà, e di aver svenduto beni nazionali a investitori stranieri. Nonostante questi temi siano tra i più efficaci per riempire le piazze, a muovere i pezzi da novanta del fronte anti-thaksiniano sono ben altre preoccupazioni. I più terrorizzati dai governi thaksinisti sono infatti le élite tradizionali, vale a dire i membri di quei circoli di corte che da sempre guidano il paese. Essi capirono presto che la loro decennale egemonia culturale e i loro vasti interessi economici venivano minacciati dalla popolarità di Thaksin e dalle sue politiche. Quando videro il vasto seguito popolare e di conseguenza il potere accumulato da un politico eletto dal popolo, e quindi più responsabile davanti agli elettori che nei riguardi delle vecchie istituzioni, queste alte personalità divennero le nemiche giurate del “Chavez siamese.”
Il fatto che il popolo thailandese, per la prima volta nella storia, abbia stretto una forte alleanza con un leader democraticamente eletto, è stato visto come una minaccia ai cardini dell’ordine politico ed economico conservatore imperniato su due istituzioni che non passano dal voto popolare: monarchia ed esercito. Come osservò il più grande teorico della democrazia moderna, Alexis de Tocqueville, l’aristocrazia francese pre-rivoluzionaria cadde nell’onta perché pretendeva dei privilegi sulla base di funzioni che non era più in grado di soddisfare. Con un sistema elettorale nel quale gli elettori possono eleggere un partito che poi lavora nelle istituzioni per dare all’elettorato quanto esso domanda, l’aristocrazia thailandese potrebbe essere finita nella situazione di quella parigina di più di due secoli orsono. In altre parole, Thaksin, consapevolmente o meno, avrebbe favorito un processo di democratizzazione caratterizzato da una parziale ridistribuzione del potere a favore delle masse popolari che ora, consce dei propri diritti, non sarebbero più disposte ad accontentarsi della carità e del paternalismo aristocratico. Ma la nascente passione popolare per la democrazia rappresentativa era una minaccia mortale per il potere dell’elite, da stroncare sul nascere. E fu allora che il vecchio Establishment, invece di accettare un inevitabile ridimensionamento, decise di scendere in campo e combattere.
Il primo tentativo di debellare la minaccia rappresentata dal populismo thaksiniano e dalla democrazia rappresentativa sono state le proteste di strada delle ultra-monarchiche “Camicie Gialle,” che chiedevano un parlamento al 30% elettivo e al 70% nominato, ed il conseguente colpo di stato militare del 2006. Il golpe ha deposto Thaksin, stracciato la “Costituzione del Popolo” del 1997, e riscritto una nuova Carta, quella del 2007, che prevede un Senato per metà nominato, un parlamento più debole e meno rappresentativo tenuto costantemente sotto scacco da una serie di organi dello Stato, nessuno dei quali elettivo, dotati di ampi poteri giurisdizionali ed amministrativi. Tuttavia, con somma sorpresa dell’Establishment, negli anni successivi al golpe è diventato progressivamente chiaro che le vecchie tattiche caratterizzate da colpi di stato – la Thailandia ne ha avuti 18 in 82 anni – censura, repressione, violenza di stato, e concessione di un parlamento debole e tenuto sotto scacco non erano più accettabili per molti thailandesi. Questo rifiuto è provato dal fatto che ognuna delle cinque elezioni dell’ultimo decennio ha prodotto un governo pro-Thaksin forte di una larga maggioranza parlamentare. Ciò è avvenuto persino nelle due consultazioni elettorali svoltesi dopo il golpe, in un clima di intimidazione, con l’esercito attivo nel far campagna elettorale per il principale partito anti-thaksiniano. In questo quadro, le manifestazioni di questi giorni rappresenterebbero solamente l’ultimo e il più disperato tentativo di fermare le ruote della storia da parte di una elite che cerca di mantenere il suo atavico controllo su di un popolino che oramai si permette di scegliere il proprio governo e vorrebbe dettare le politiche nazionali.
Scavando tra gli interstizi del potere, alcuni osservatori suggeriscono un secondo e più profondo livello di conflitto. In questo caso, la crisi politica thailandese sarebbe sostanzialmente un conflitto intra-elite. Secondo questa interpretazione, la battaglia, allorchè lontana dalle luci mediatiche per via della ferrea censura, ruoterebbe intorno alla questione della successione al trono. L’86enne monarca, Re Bhumipol Adulyadej, guida il Regno da quando suo fratello maggiore, Re Ananda Mahidol, fu trovato morto nel suo letto, ucciso misteriosamente da un colpo di pistola, nel giugno del 1946. Durante i quasi sette decenni al potere, puntellati da una lunga serie di colpi di stato e regimi dittatoriali giustificati dalla necessità di proteggere il paese dal comunismo e da altri pericoli, Bhumipol ha stretto una fortissima alleanza con il potente Esercito Reale Thailandese. In cambio di gloria e potere, i militari hanno forgiato un eccezionale culto della personalità del re, che con una miscela di propaganda capillare e draconiane leggi di lesa maestà ha fatto del sovrano un soggetto semi-divino ed incriticabile.
Con il naturale avvicinarsi della fine del lunghissimo regno dell’86enne Bhumipol, che non ha mai nominato con chiarezza un successore, la larga schiera di personaggi che per decenni ha vissuto di luce riflessa sotto l’ala protettiva del monarca sta lavorando dietro le quinte per garantirsi un futuro, ed in particolare per sbarrare la strada al trono al principeVajiralongkorn. Nonostante sia l’unico figlio maschio e dunque il primo in linea di successione, Vajiralongkorn non è particolarmente amato dal popolo per essersi sposato tre volte e per una serie di episodi controversi che lo hanno visto protagonista. Egli non potrebbe godere dunque, almeno all’inizio del suo regno, di un potere carismatico simile a quello del padre. Ma per l’elite il peccato più grande del principe non sono le sue avventure sessuali. (Per inciso, Re Chulalongkorn “il Grande,” nonno del monarca in carica, ebbe circa 100 donne tra mogli, consorti e concubine, ed è ancora oggetto di un importante culto di stato). Quello che i circoli di corte non possono perdonare a Vajiralongkorn è piuttosto l’essere particolarmente vicino a Thaksin Shinawatra. Se dovesse ereditare la corona, gli equilibri di potere del Regno cambierebbero in modo drastico, e tra i nemici giurati di Thaksin potrebbe saltare più di una testa.
Per tutte queste ragioni, alcuni personaggi di spicco dei circoli di corte, capaci di controllare esercito e tribunali, stanno lavorando per scavalcare il principe e vedere incoronata una delle tre figlie del re, la principessa Sirindhorn, da sempre molto attiva in opere di beneficenza, sulla linea del padre, e che in netto constrasto con il fratello ha scelto di non sposarsi “per dedicarsi anima e corpo al bene dei suoi sudditi.” La Thailandia non ha mai visto una donna salire sul trono, ma questa eventualità è espressamente permessa dalla Costituzione prodotta dall’ultimo golpe, e dunque non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile, a patto però di controllare Governo e Parlamento al momento della successione. Questo punto è fondamentale in quanto la Costituzione prevede che il Consiglio Privato del re, nel momento in cui il re verrà a mancare, dovrà proporre il nome del nuovo sovrano al Consiglio dei Ministri, che dovrà poi girarlo al parlamento per l’approvazione. Il tutto dovrà avvenire con la massima rapidità. Per evitare pericolosissimi corto circuiti istituzionali, che tra l’altro danneggerebbero la mistica monarchica, le forze che si oppongono al principe devono assicurarsi un Governo ed un parlamento amico.
Se questo è il quadro, le forze anti-thaksiniane, minoritarie numericamente e dunque incapaci di ottenere la maggioranza parlamentare tramite libere elezioni, possono avere successo solo con un’altra dose di carri armati, come nel 2006, o tramite un nuovo intervento giudiziario, come nel 2007 e nel 2008, quando il partito thaksiniano venne sciolto due volte e centinaia di parlamentari vennero squalificati. Se questo aiuto dovesse arrivare, e le forze anti-thaksiniane dovessero riuscire a prendere il potere, la realtà politica del cosiddetto “Paese dei Sorrisi” rischia di essere molto più autoritaria di quanto la loro retorica suggerisca. Piuttosto che una “nuova politica,” slogan quali “abbattere la corruzione,” “fare pulizia,” “sradicare il Thaksinismo,” “il sangue di Yingluck non è buono nemmeno per lavarmi i piedi” (parole del leader della protesta, Suthep Thaugsuban), o gli inviti a molestare sessualmente il primo ministro suggeriscono la possibilità di un agghiacciante ed antistorico regime dispotico. Il problema, questa volta, è che le forze a favore della democrazia rappresentativa, le “Camicie Rosse,” appaiono organizzate e si dicono pronte a lottare contro un eventuale ennesimo rovesciamento del governo. In poche parole, si rischierebbe la guerra civile. Per dirla con Antonio Gramsci, “quando il vecchio rifiuta di morire e il nuovo combatte per nascere appaiono i mostri.”