domenica, maggio 30, 2010

Cerchiamo di capire la Thailandia del dopo proteste rosse.

la rivolta di Bangkok e il ruolo dei boss.

di Raimondo Bultrini Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/

Il ruolo di Por Pratunamalias, alias Phaijit Thammarotphinit, e del suo impero del malaffare negli scontri. I suoi rapporti con l’ex premier esule Thaksin Shinawatra. I problemi di una società feudale dov’è permesso ai ricchi di sfruttare i poveri col potere dello Stato. Il record delle 480 Ferrari.
BANGKOK – Nelle cronache delle sanguinose rivolte al centro di Bangkok, il nome di Phaijit Thammarotphinit uscì solo di sfuggita. Era nella lunga lista di amici, parenti stretti (figlia compresa) e soci d’affari dell’ex premier esule Thaksin Shinawatra messi al bando dal governo per ogni genere di transazione commerciale o finanziaria.

Nel comunicato con cui lo si accusava di finanziare e supportare le camicie rosse non si usava il suo soprannome, Por Pratunam, ben più conosciuto di quello vero. Vuol dire il boss di Pratunam, una delle aree del distretto commerciale occupate dalle camicie rosse e poi espropriate dall’esercito.

Ma l’impero di Por Pratunam non si estende solo nel centro cittadino dove possiede palazzi e sale massaggi rimasti illesi negli scontri. Comanda anche ogni attività criminale della baraccopoli di Kloen Toi, dove ragazzini dai cinque, sei anni in sù possono essere assoldati per qualsiasi ordine, dalla distribuzione di droga all’omicidio, al sesso con gli adulti. Quando a metà maggio la lunga via Rama IV ha iniziato a bruciare del fumo acre dei copertoni e del petrolio, è da Kloen Toi che è partita la miccia innescata dall’ala dura delle camicie rosse, con un effetto immediato e diretto qualche chilometro più avanti sulla stessa strada rettilinea a quattro corsie, sotto ai palazzi scintillanti della finanza thailandese.

Non è secondario partire dal caso del boss mafioso per capire parte della grande sfida nascosta - ignota anche alle camicie rosse più naÏve - di questa rivolta che si è consumata con un numero miracolosamente “basso” di vittime, 88, e una serie di danni economici e sociali dagli effetti difficilmente rimarginabili a breve. Por Pratunam è diventato col tempo un potente finanziere collocato spesso al di sopra della legge, soprattutto grazie alle strette e ambigue relazioni d’affari con uomini politici potenti e corrotti, compreso l’ex premier esule Thaksin, oggi ricercato con un mandato d’arresto per istigazione al terrorismo e all’insurrezione.

Narrano le cronache del febbraio 2006 che Thaksin andò su tutte le furie quando l’impero di go-go bar, bordelli camuffati da saloni di massaggio e sale da gioco appartenenti a Por Pratunam era stato raso al suolo su ordine del capo della polizia distrettuale Seripisut Temiyavej. “L’ufficiale non aveva il diritto di oltrepassare la sua proprietà”, fu il commento dell’ex premier ancora in carica.

Quello stesso anno a settembre, una giunta militare
prese il potere con un golpe incruento e Temiyaveji fu messo però a capo della polizia nazionale. Ma dopo le prime libere elezioni, Thaksin vinse di nuovo e il suo premier di fiducia (Samak) licenziò su due piedi l’ufficiale, l’unico che si era opposto al boss dei boss.
Por Pratunam tornò così a fare i suoi affari più o meno impunemente come prima, con un doppio debito di riconoscenza verso Thaksin e – va da sé – i suoi uomini raccolti nel movimento delle camicie rosse. Non a caso il suo feudo di Kloeng Toi è stato il bastione di resistenza anti-governativa più forte al di fuori del distretto commerciale occupato di Ratchaprasong.

Per il senatore del Partito democratico Kraisak Choonhavan questi intrecci di personaggi e interessi sono però solo il corollario di una realtà che ancora tiene il Paese sull’orlo di una guerra civile latente. “Se i leader rossi sono giunti a invitare esplicitamente al saccheggio dei negozi e al linciaggio dell’attuale primo ministro Abhisit, dobbiamo riconoscere che anche il mio partito ha delle responsabilità per non essere stato in grado di aiutare e attrarre gli strati più poveri”.

Thaksin – ricorda il senatore Kraisak - ha finanziato 15mila villaggi con un milione di baht ogni anno da gestire autonomamente, oltre a imporre a tutte le banche di aprire uno sportello per i prestiti agrari, anche per chi non aveva nemmeno un pezzo di terra da dare in garanzia. Per ottenere i soldi non serviva indicare la spesa, e per questo ognuno li ha usati come gli pare, comprando magari ripetitori satellitari e telefoni cellulari prodotti da Thaksin, motorini, frigoriferi, e spesso indebitandosi fino al collo. Per non perdere tutto molti hanno fatto altri debiti con i quali ripagare quelli vecchi, finché il golpe del 2006 non ha bloccato la catena, lasciando molte famiglie in estrema difficoltà.

Poi sono tornati al governo gli uomini di Thaksin con una nuova politica di prestiti facili, finché il potere non è rientrato nelle mani del mio partito, i Democratici”. “Abbiamo ristretto nuovamente i fidi senza garanzia – spiega il senatore – senza però risolvere il problema all’origine, anzi fissando una lista ristretta di beni da poter acquistare col prestito. Il controllo è stato affidato ai capi delle amministrazioni locali fedeli al Partito, e molti corrotti se ne sono approfittati intascando così parte dei soldi destinati ai bisognosi”. Ma conseguenze ancora più gravi – spiega Kraisak – “sono venute dall’accentramento del potere di decisione al centro, accrescendo il malcontento della periferia”.

Il senatore ammette senza mezzi termini che la Thailandia è ancora una società feudale dov’è permesso ai ricchi di sfruttare i poveri col potere dello Stato. “Fino al 1932 (data delle concessioni costituzionali dei monarchi thai, ndr) ogni singolo ministro era autorizzato a prendersi enormi appezzamenti senza obblighi e tasse. I ministri delle Risorse e delle Terre potevano dichiarare ogni zolla terra pubblica e usarla a proprio beneficio. Il ministro delle Risorse e dell’ambiente poteva addirittura vendere isole e montagne, espropriando anche quei contadini che avevano regolari licenze di proprietà”.

Kraisak spiega che solo dal 1998 c’è una legge per restituire le terre sequestrate, una riforma scritta dai Democratici e passata anche col voto dell’opposizione. Ma finora non ci sono state applicazioni significative, e nel frattempo i ricchi possono contare su altre risorse, mentre i poveri hanno solo i loro campi. Come parte della Commissione per censire le terre espropriate illegittimamente – racconta Kraisak – “ho scoperto che in tre province tutti i terreni appartenevano a un solo ministro, il responsabile dell’allora Difesa militare. Possedeva 5 milioni di rai (oltre 7 milioni di ettari) che affittava regolarmente ai contadini. Ma non è tutto. Dal 1937 gran parte delle terre agricole ancora appartiene all’esercito”.

Il senatore, navigato da molte battaglie per i diritti umani e figlio di un ex primo ministro molto vicino al re, sa bene che le cose di cui parla sono anche all’origine del risentimento popolare espresso dai militanti delle camicie rosse e dei loro simpatizzanti. Ma sa anche che ogni possibilità di riforma, del resto finora appena abbozzata, potrebbe restare nei cassetti per un periodo ancora più lungo del previsto, vista la reazione negativa dell’ammat, l’èlite, all’ondata di rabbia sfociata nelle rivolte di Bangkok.

Il legame tra il sospetto mandante dei cortei “anti-elite” Thaksin e il capo della malavita di Kloen Toei svela parte di un progetto segreto e non recente per forgiare spregiudicate alleanze trasversali sfruttando la rabbia del popolo contro i temporanei nemici comuni. Non è un mistero che l’ex premier vorrebbe indietro i suoi soldi sequestrati e la poltrona di primo ministro, così come Por Pratunam spera che aiutandolo a ottenere ciò che vuole possa un giorno riprendersi le aree del centro dov’erano i suoi prosperosi bordelli (le case chiuse e i bar sono stati serrati per qualche giorno solo durante il coprifuoco, e mai durante i mesi delle rivolte).

Anche l’ex comandante rosso Seh Daeng avrebbe voluto indietro le sue stellette e lo stipendio, che gli sono stati tolti dal comando dell’esercito per le sue simpatie verso Thaksin e il supporto militare dato alla sua causa. E’ stato ucciso da un cecchino piazzato su un grattacielo alla vigilia della riconquista di Ratchaprasong da parte dell’esercito, e alla fine ha ottenuto solo un funerale pagato a spese del Re. Non è forse secondario ricordare che anche Seh Daeng – come Thaksin - aveva protestato vivamente a suo tempo per la distruzione dei bordelli di proprietà del comune amico e solidale Por Pratunam.

Eppure nonostante i precedenti di questi personaggi diventati paladini del popolo rosso di Bangkok e del Nordest, a decine di migliaia sono scesi in piazza da un giorno all’altro con uno spirito di martirio mai visto prima. A nessuno di loro è suonata strana nemmeno la decisione di invadere Bangkok all’indomani del verdetto di una Corte che aveva sequestrato un miliardo e mezzo di dollari al paladino dei poveri Thaksin.
Per molti Thaksin è l’unico che nel bene o nel male è stato a sentire e ha capito le lagnanze dei 10 milioni di thai che guadagnano un massimo di 10mila baht annui, 250 euro, un esercito che aumenta anziché diminuire.

Nel regno il 70 per cento delle proprietà è in mano
al 20 per cento delle famiglie, un gap sociale enorme aggravato – come sostiene Kraisak – dalla globalizzazione. “Consideri che nel Nord Est – dice - invece di promuovere i nostri prodotti, che oggi costano tre volte di più, i governi di Thaksin hanno concesso alla Cina una lista di 220 prodotti agricoli, come le cipolle o i cavoli, liberi da dazi. E’ stata una politica devastante per i nostri contadini”.

La Thailandia però importa anche ben altri generi, e vanta una delle più grandi collezioni di Ferrari. Ce ne sono 480, status symbol di un mondo del quale fa parte anche il presunto Robin Hood Thaksin, fotografato a far spese da Luis Vuitton al centro di Parigi, senza apparentemente creare troppo scandalo tra i suoi seguaci.

Nei giorni delle proteste, poco prima del blitz e del ritorno a casa degli ultimi 3000 irriducibili, un leader delle camicie rosse ha detto ai manifestanti che potevano prendere ciò che volevano dai negozi perché “i ricchi si appropriano a spese dei poveri e una volta tanto possiamo farlo anche noi”. Pochi hanno seguito l’invito al saccheggio, ma la rabbia e la frustrazione si sono espresse con la violenza che tutti hanno potuto vedere in tv. Molti tra quelli tornati a casa senza una vittoria né la prospettiva immediata di un cambiamento, sono ora depressi.

E’ il tempo della riflessione dopo le azioni compiute, e potrebbe esserci pace per altri anni. Ma i soldi pompati da politici e mafiosi loro alleati per abbattere il potere di un’èlite e mettercene un’altra, non sono sicuramente finiti, anche se congelati. Per vendicarsi della sconfitta, alcuni fondamentalisti fedeli a Thaksin, Khattyia o all’ex cantante pop Arisman, potrebbero usarli per costruire un movimento sotterraneo in grado di prepararsi a nuove elezioni. L’attuale sigla unificante, sul fronte politico legale, è il Phuea Thai, “per i thai”, guidato oggi da un altro ex premier e generale, Chavalit. Questo non escluderebbe però la coesistenza dell’ala politica e del braccio armato.

Anche se è stato ucciso il Comandante rosso per eccellenza Seh Daeng, c’è un forte nucleo di militanti arrabbiati disposti a incendiare, bombardare, uccidere, sul modello maoista indiano. Sarebbe una scelta in totale conflitto con lo spirito della religione buddhista Theravada praticata da rossi e gialli. Ma il sangue del sangha, la comunità dei cittadini praticanti, è già stato versato nelle strade di Bangkok. “E potrebbe esserlo ancora – conclude Kraisak - se non si mette mano alle riforme più importanti per migliorare la condizione nelle campagne e delle piccole imprese schiacciate dai colossi del commercio”..

venerdì, maggio 28, 2010

Migliaia in preghiera per la pace nel Paese mentre Ex primo ministro minimizza sulle accuse di terrorismo.



THAILANDIA
Bangkok, migliaia in preghiera per la pace nel Paese
di Weena Kowitwanij
All’alba cristiani, buddisti, musulmani e indù si sono riuniti in 10 punti della capitale per rinnovare l’appello alla riconciliazione. Analisti spiegano che le divisioni restano profonde e sono necessarie riforme socio-politiche per riportare la coesione nazionale. La resa delle “camicie rosse” non significa la pace.

Bangkok (AsiaNews) – Questa mattina migliaia di cittadini di Bangkok si sono svegliati all’alba, per partecipare a preghiere interreligiose di pace e riconciliazione, organizzate in almeno 10 punti della capitale. Il canto di oltre mille monaci buddisti si è mischiato con litanie di imam musulmani, sacerdoti e leader cristiani, fedeli indù. La metropoli, abitata da circa 15 milioni di persone, nelle scorse settimane è stata teatro della protesta delle “camicie rosse” che ha causato 83 morti e oltre 1900 i feriti.
Tuttavia, diversi esperti di politica thai spiegano che “senza riforme importanti del sistema socio-politico”, troppo legato all’elite finanziaria della capitale, le preghiere e gli inviti alla riconciliazione “non metteranno fine a una polarizzazione della crisi”. La massa rurale che sostiene i rossi – legati all’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra – cercherà nuove forme di protesta che avrà ripercussioni per “miliardi di dollari sulll’economia”. Nei giorni scorsi il premier Abhisit Vejjajiva ha rilanciato il piano di riconciliazione, che intende promuovere in parallelo riforme politiche e una maggiore giustizia sociale. Nove settimane di proteste, le più cruente della storia recente del Paese, hanno lasciato il segno ed è poco probabile, aggiungono i politologi, che il piano possa funzionare “senza la partecipazione dell’opposizione”, guidata da Thaksin.
In un editoriale pubblicato sul Bangkok Post Thitinan Pongsudhirak, docente ed esperto di sicurezza in internet, spiega che “sarà difficile raccogliere i cocci degli ultimi due mesi” e “siamo solo all’inizio”. Egli aggiunge che “è stato un errore” lasciare che Thaksin unificasse le diverse anime dell’opposizione e ora è necessario “lavorare con i leader moderati” del movimento. E se, sottolinea, Abhisit è “troppo compromesso” con le violenze degli ultimi giorni, il premier dovrebbe considerare l’ipotesi di “fare un sacrificio personale che dia ad altri la possibilità di intraprendere il cammino di pace”.
Anche il Daily Newspaper conferma che “la resa delle camicie rosse non significa la fine” e non è detto che riporterà la pace nel Paese. “Dobbiamo aspettare – si legge nell’editoriale – ancora a lungo” e il numero dei morti non sembra preoccupare il padrino dei “rossi” – Thaksin Shinawatra – che tempo fa ha detto “Se non sopravvivo, nessun altro sopravvivrà”.
Attraverso AsiaNews leader buddisti vogliono infine rinnovare l’appello alla pace nel Paese. Phra Phaisarn Visalo, monaco nel tempio di Erawan, nella provincia di Chaiyapoom sottolinea che “il Dharma può mettere fine alle violenze basate sulla giustizia sociale”, invitando le persone a “condividere le risorse e aiutando i poveri”. Egli aggiunge che “ci vorrà tempo per la pace”, e per questo bisogna trarre insegnamento dagli errori del passato”. Phramahawuthichai Vachiragaethee, direttore di un istituto buddista, suggerisce di “non peggiorare la situazione, rivendicando ciascuno la ragione e addossando agli altri il torto”. “Nessuno può dire di essere nel giusto o nell’errore – afferma lo studioso – perché ciascuna parte ha i propri errori” ed è più saggio cercare una soluzione “con coscienza e saggezza”.



Thaksin: le accuse di terrorismo del governo thai sono di natura politica
L’ex premier in esilio respinge le imputazioni ed esclude l’intervento dell’Interpol per arrestarlo. Per il governo egli avrebbe manovrato i manifestanti e finanziato la frangia estremista “nera”, responsabile delle violenze. Analista politico: da Thaksin e Abhisit un passo indietro per il bene della Thailandia.

Bangkok (AsiaNews) – L’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, accusato di essere l’eminenza grigia che ha manovrato la protesta e le violenze delle scorse settimane, nega ogni coinvolgimento e minimizza il pericolo di essere arrestato. Bangkok ha chiesto l’intervento dell’Interpol per catturare il leader del movimento di opposizione antigovernativo. In un’intervista telefonica Thaksin ha risposto che l’agenzia di intelligence – con base a Parigi – non agisce per accuse di natura “politica” e imputa all’esecutivo un atteggiamento di “confronto”, più che di “riconciliazione” per il bene del Paese.
Thakisn Shinawatra ha rotto il silenzio che ha seguito la repressione del governo contro le “camicie rosse”, che per due mesi hanno occupato intere aree della capitale. La peggior crisi politica attraversata dalla Thailandia nella storia recente ha causato 88 morti e oltre 1900 feriti. L’ex premier – secondo l’Afp rifugiato in Montenegro – è intervenuto in diretta telefonica nel programma Lateline del network australiano ABC per raccontare la sua versione dei fatti.
Le autorità thai hanno emesso un mandato di arresto con l’accusa di terrorismo per Thaksin, che potrebbe sfociare anche in una condanna a morte. Egli parla di “ragioni politiche” alla base dell’incriminazione, che a suo dire “non hanno fondamento”. “Ho sempre chiesto proteste pacifiche – aggiunge – e ho sempre detto al mio popolo che noi, la Thailandia, abbiamo bisogno di riconciliazione”. Intanto sono stati arrestati due stranieri, un britannico e un australiano, con l’accusa di aver partecipato e fomentato le rivolte. In particolare appare critica la posizione di Jeff Savage, 48 anni, filmato mentre incita la folla a incendiare il centro commerciale CentralWorld.
L’ex premier tenta di allontanare le ombre, secondo cui sarebbe responsabile delle violenze delle ultime settimane. Egli avrebbe infatti finanziato i manifestanti, garantito il rifornimento di armi per “i neri” protagonisti di assalti e incendi, intimato all’ex generale Khattiya Sawasdipol – colpito a morte da un cecchino il 13 maggio scorso – di continuare nella linea dell’intransigenza e adottare strategie di guerriglia contro l’esercito governativo. “Il governo parla di riconciliazione – accusa l’ex premier – ma usa il pugno di ferro… ciò significa che essi puntano più allo scontro, che alla riconciliazione”. Thaksin ribadisce di non aver “mai, mai” usato l’arma della violenza e nega la presenza di una frangia armata che ha causato incendi e devastazioni.
La responsabilità delle “camicie rosse”, o di una parte del movimento di opposizione, nelle violenze è testimoniato da nastri, registrazioni e racconti di persone presenti nella zona occupata della capitale. Arisman Pongroengwrong, uno dei leader del partito di opposizione United Front for Democracy against Dictatorship (UDD), durante un comizio avrebbe rivendicato il possesso delle “tre gemme: la massa, il partito, gli assassini”, confermando il sostegno “degli uomini in nero” ai manifestanti.
Il governo e l’ex premier Thaksin continuano il braccio di ferro, rinfacciandosi accuse e responsabilità per la crisi politica che ha trascinato nel caos il Paese. Esperti di politica thai ammettono che “forse la linea dura dell’UDD ha preso in ostaggio il movimento e impedito i negoziati” con l’esecutivo. Come è altrettanto evidente che “una parte delle camicie rosse era interessata a trattare” e una “maggiore concessione” in termini di tempo avrebbe evitato la guerriglia urbana.
Thitinan Pongsudhirak, docente ed esperto di sicurezza in internet, in un editoriale pubblicato dal Bangkok Post ricorda come “già nell’aprile 2009 il premier Abhisit ha subito una pesante contestazione” dei “rossi”, che ha causato un morto e l’interruzione del vertice Asean. Per calmare le opposizioni, egli ha promesso riforme che non sono mai arrivate. Il docente sottolinea che “è compito del governo riportare le opposizioni al tavolo delle trattative”, escludendo dal panorama politico nazionale Thaksin. “Vanno coinvolti i leader moderati e riammessi alcuni leader politici esclusi nel 2007”, dopo la cacciata dell’ex premier. E se Abhisit è “troppo compromesso” con le violenze degli ultimi giorni, conclude l’analista, egli dovrebbe considerare l’ipotesi di un “sacrificio personale che dia ad altri la possibilità di intraprendere il cammino di pace”.

martedì, maggio 25, 2010

Mandato d'arresto contro ex premier in esilio.

(Fotomontaggio ritrae Ex Primo ministro con dietro il Central World bruciato)

BANGKOK (Reuters) - Un tribunale thailandese ha emesso oggi un mandato d'arresto per l'ex primo ministro Thaksin Shinawatra con accuse di terrorismo in relazione ai disordini degli ultimi due mesi che sono stati i più gravi nella storia moderna del Paese.

In base al mandato d'arresto, gli inquirenti e il Ministero degli Esteri potranno lanciare una caccia a livello globale al magnate delle telecomunicazioni, al momento latitante, ha detto un alto funzionario governativo.

Si ritiene che Thaksin sia stato di recente in Francia al Festival di Cannes ma la sua residenza resta segreta.

"Il tribunale ha detto che ci sono abbastanza prove per credere che Thaksin sia stato la mente nell'aver giocato un ruolo cruciale nel preparare e manipolare gli incidenti", ha detto a Reuters il capo del Dipartimento investigazioni speciali Tharit Pengdit. a proposito dei disordini.

Secondo funzionari governativi, Thaksin avrebbe finanziato le proteste antigovernative con la somma di un milione e mezzo di dollari al giorno e si ritiene che abbia organizzato un contrabbando di armi e combattenti dalla Cambogia.

Se riconosciuto colpevole di terrorismo, rischia la pena di morte.

Il governo thailandese intanto ha concordato di estendere il coprifuoco notturno a Bangkok e in 23 province sino al 29 maggio: lo ha annunciato oggi il viceprimo ministro Suthep Thaugsuban.

Suthep ha detto che il coprifuoco, in vigore dalla mezzanotte alle 4 del mattino, è stato necessario per prevenire ulteriori disordini ma che non sarà in vigore per sette giorni come annunciato ieri.

"Abbiamo limitato l'arco di tempo da sette a quattro giorni perchè vogliamo limitarne l'impatto sul pubblico", ha detto Suthep ai giornalisti.

Il coprifuoco è stato adottato il 19 maggio dopo i disordini a Bangkok e in almeno sei province nell'ambito della stretta messa in atto dall'esercito per rimuovere le proteste antigovernative nella capitale.

Almeno 54 persone sono morte e più di 400 sono rimaste ferite dal 14 maggio, mentre a Bangkok almeno 40 grandi palazzi sono stati dati alle fiamme, e il turismo e il settore commerciale sono stati gravemente compromessi.

-- Sul sito www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano. Le top news anche su www.twitter.com/reuters_italia

lunedì, maggio 24, 2010

C'era una volta la rivolta









di Eugenio Roscini Vitali

Fonte:www.altrenotizie.org

«Lasciate che vi rassicuri sul fatto che il governo affronterà queste sfide e queste difficoltà nel piano di riconciliazione in cinque punti che avevo annunciato in precedenza». Questo è in pratica il messaggio con il quale il premier Abhisit Vejjajiva ha voluto rassicurare i thailandesi e la comunità internazionale dopo i fatti di Bangkok e l’operazione di pulizia e sicurezza con la quale l’esercito ha messo fine alla protesta delle camicie rosse. La road map promessa da Abhisit prevede un pacchetto di riforme in ambito politico, sociale ed economico e la creazione di una commissione indipendente che dovrà indagare sugli episodi di violenza che, per oltre nove settimane, hanno devastato la capitale.

Quello di cui non ha parlato il primo ministro sono gli effetti della rivolta sulla situazione economica del Paese e cosa potrebbe accadere se a Bangkok, e in gran parte delle province nord orientali, roccaforte degli oppositori, dovesse prender vita ad un movimento sotterraneo di guerriglia urbana. Abhisit non ha neanche fatto alcun accenno ad uno dei punti centrali della rivolta: le elezioni anticipati che i sostenitori dell’ex premier Thaksin Shinawatra chiedono da tempo e che lo stesso governo thai aveva offerto fino a poche ore prima che le truppe d’assalto e i mezzi blindati entrassero in azione.

Le elezioni anticipate si sarebbero dovute svolgere il prossimo 14 novembre, ma a “causa delle recenti violenze” il governo avrebbe per ora deciso di rimandare la consultazione a data da destinarsi. All’interno dell’esecutivo c’è comunque chi pensa che Abhisit non sarà in grado di restare ancora a lungo in carica, non almeno fino alla fine del mandato; sempre che permanga la stabilità delle ultime ore, è quindi probabile che il premier debba cedere alle pressioni dell’opposizione ed affrontare il giudizio degli elettori.

E’ comunque difficile pensare che le camicie rosse, dopo oltre due mesi di protesta, decine di morti e migliaia di arresti, abbiano deciso di mettere la parola fine ad una rivoluzione sociale che ha conquistato la simpatia di gran parte della dell’opinione pubblica occidentale. Ripreso il controllo del cuore finanziario della capitale e del Central World, l'enorme centro commerciale diventato simbolo del boom economico che negli anni ‘80 e ‘90 tracciò il solco delle disuguaglianze tra i neo-capitalisti e le masse contadine della provincia, il governo deve ora far fronte alle critiche della comunità internazionale.

E deve anche giustificare un uso sproporzionato della forza, compresa la morte del fotografo italiano Fabio Polenghi e del cameraman giapponese Hiro Muramoto, morti mentre riprendevano gli scontri tra camicie rosse ed esercito, e degli altri sei giornalisti rimasti feriti. Abhisit dovrà anche trovare una valida giustificazione per l’irruzione della polizia all'interno del tempio Wat Panum, per lo stato di emergenza imposto in 23 province, per la decisione con la quale sono state oscurate Twitter e Facebook, istrituita la pena di morte e censurate le televisioni nazionali.

Dovrà anche cercare di convincere gli investitori che il nordest è sotto il controllo delle autorità e che gli attacchi dei manifestanti alla sede del governo provinciale di Udon Thoni e ai municipi di Chang Mai e Chang Rai sono solo stati casi isolati, come isolate sarebbero le manifestazioni antigovernative scoppiate nelle province di Khon Kaen, Roi Et, Si Sa Ket e Ubon Ratchathani.

Per gli Stati Uniti Bangkok è un alleato prezioso, un partner strategico che Washington ha usato per anni in chiave anti-comunista e che ora sfrutta come argine all’inesorabile boom economico cinese. E’ per questa ragione che nel 2006 la Casa Bianca aveva appoggiato il golpe che ha portato all’estradizione dell’ex premier Thaksin, amico di Pechino e leader delle camicie rosse. Allora l’accusa mossa al miliardario thailandese era quella di essersi arricchito a scapito delle classi povere della società, ma in realtà Thaksin aveva ben altra colpa: non apparteneva alla grande oligarchia thai vicina al re Bhumibol Adulyadej.

Oggi neppure il monarca sembra però in grado di ridare stabilità e futuro ad un paese diviso tra gerarchia elitaria e masse rurali, un paese che paga ancora gli effetti del vecchio sistema feudale e le conseguenze dello scontro tra potere militare e forze democratiche. Una storia fatta spesso di sangue che passa attraverso l'instabilità di una nazione che tra il 1932 e il 1987 ha dato vita a quattordici Costituzioni, che ha spesso sofferto gli effetti dei colpi di stato e che è stata indebolita dal succedersi nel tempo di diversi regimi.

Bhumibol, che con il suo intervento mise fine alle crisi del 1973 e del 1992, sta ormai perdendo potere: il re non esercita più quella enorme forza morale che gli ha permesso di regnare per 64 anni e intorno alla quale è cresciuta una classe dirigente fatta di burocrati e militari arricchiti. Personaggi che, pur di mantenere il potere e gli enormi privilegi raggiunti, sarebbero anche pronti a voltargli le spalle: attendere la morte del “grande” per dare vita ad un nuovo corso che prevede l’allontanamento dell’erede al trono, il principe Maha Vajiralongkorn, che non ha certo i consensi del padre, e pone fine al Regno. Un’idea accarezzata dallo stesso Abhsit che ha gia parlato della necessità di un nuovo corso e di una monarchia stanca che non riesce a stare al passo con i tempi.

sabato, maggio 22, 2010

Storia di sangue in Thailandia.

Imponente e florida, Bangkok è stata a lungo considerata – e si è considerata – una grande città. Ora però c’è il sangue che bagna le strade.

È difficile figurarsi come la Thailandia sia arrivata a questo punto e come farà a riprendersi.

Una delle spiegazioni vuole che, semplicemente, dal sottosviluppato nord si sia riversata nella città una folla impazzita di povera gente che gridava ai quattro venti il proprio amore per un ex primo ministro, Thaksin Shinawatra, e che era pagata per fare questo.

Un’altra visione delle cose parla di lotta di classe e di sommossa popolare mentre le masse insorgono sulle barricate.

La realtà dei fatti sta da qualche parte nel mezzo, e l’unico modo di comprenderla è fare un giro, a passo svelto, nella recente storia politica della Thailandia.

È facile parlare delle diciotto nuove costituzioni dello scorso mezzo secolo e dei numerosi colpi di stato. È difficile, per chi vive in paesi più stabili, concepire quel livello d’incertezza riguardo alle più elementari regole del gioco della politica.

La monarchia assoluta ha ceduto il passo alla regola costituzionale solo nel 1932 ed è da allora che si combatte, spesso con fatali conseguenze, il gioco di potere tra l’antico sistema feudale, l’esercito e le varie forze democratiche.

Sulle altre spiccano alcune grandi date: 1973, 1976, 1992, 2006 e adesso 2010.

L’irresistibile immagine della Thailandia come una Terra del Sorriso, di un paese illusorio di sole, mare, sesso e chirurgia è stata modellata con cura.

Questa immagine ha indotto molti, thailandesi e non, a credere che ci fosse una facciata di stabilità dove invece c’era un muro pieno di crepe con appena una mano d’intonaco a coprirle.

Ora però quell’intonaco è ridotto davvero male, è pieno di fenditure di vecchia data che non possono più essere ignorate.

Se non altro, e su ciò i commentatori sono d’accordo, per le camicie rosse questo sono riuscite a ottenere.

Una storia di sangue

La Thailandia ha vissuto sotto diverse varianti di dittatura militare dalla Costituzione del 1932 sino agli anni Settanta del Novecento, passando per la Seconda guerra mondiale.

Il 14 ottobre 1973, oltre 70 dimostranti furono uccisi e 800 rimasero feriti quando l’esercito aprì il fuoco sulle imponenti manifestazioni in sostegno degli studenti democratici.

Al crollo dell’allora governo militare seguirono, in sei mesi, una nuova costituzione e nuove elezioni.

Il 26 settembre 1976 due studenti vennero strangolati e impiccati, a quanto pare dalla polizia. Migliaia di studenti si radunarono in loro sostegno e contro la dittatura militare.

Due settimane dopo, il 6 ottobre, quella tensione esplose con l’uccisione di non meno di 46 studenti da parte di soldati, polizia e bande di estrema destra. Secondo gli studenti, a morire furono molti di più.

Fu quello il momento che segnò la fine di un periodo democratico e che spinse parti di un’intera generazione a fuggire sulle colline per unirsi a un movimento comunista che in seguito venne decimato.

Dal 1980, il generale Prem Tinsulanonda fu nominato primo ministro dopo che un collega generale aveva governato per tre anni in seguito a un colpo di stato nell’ottobre del 1977.

Il generale Prem è attualmente a capo del Consiglio di gabinetto e bersaglio dell’ira delle camicie rosse per quello che esse sostengono essere stato il suo ruolo nel golpe del 2006.

Colpi di stato e traballanti governi di coalizione guidati da primi ministri designati condussero la Thailandia sino al 1992, quando Chamlong Srimaung guidò le proteste contro la nomina a primo ministro del generale Suchinda Kraprayoon.

Alla metà di maggio di quell’anno, il re Bhumiphol Adulyadej, è cosa nota, convocò i due uomini al suo cospetto per porre fine ai combattimenti per le strade che avevano provocato dozzine di morti, un gran numero di feriti e oltre 200 dispersi.

Ritorno al futuro

Le elezioni del settembre 1992 produssero una coalizione a guida democratica con Chuan Leekpai come primo ministro.

Due anni dopo, un magnate delle telecomunicazioni di nome Thaksin Shinawatra fece il proprio ingresso in politica sotto l’ala protettrice di Chamlong.

Nel 1995, Chamlong fece fuoriuscire dalla coalizione il proprio partito Palang Dharma, provocando la caduta del governo di Chuan. Nel governo che seguì, Thaksin assunse la carica di vice primo ministro.

Due governi di coalizione dopo, fu primo ministro il generale Chavalit Yongchaiyudh, il quale è attualmente alla guida del partito di Thaksin Peua Thai.

La crisi economica del 1997 riportò i democratici sotto Chuan, sino alla schiacciante vittoria di Thaksin alle elezioni del 2001.

Thaksin sfruttò la situazione per accumulare ricchezza e potere su una serie di istituzioni nazionali. Si guadagnò una scandalosa posizione in materia di diritti umani e schiacciò la stampa libera, ma in compenso riversò denaro nelle aree rurali di solito estremamente trascurate.

Nelle elezioni del 2005 vinse di nuovo con una valanga di voti e con la più alta percentuale di votanti della storia thailandese. Nel 2006 convocò un’altra elezione che venne boicottata dall’opposizione democratica. La sua vittoria venne poi invalidata dalla Corte costituzionale l’8 maggio del 2006.

I piani elettorali di ottobre vennero frustrati dal golpe del 19 settembre 2006. Da allora sono stati eletti due governi alleati di Thaksin ed entrambi sono stati ostacolati dalle azioni della Corte che hanno portato all’attuale governo democratico, eletto tramite un altro voto in Parlamento e non con un’elezione generale.

Definire se gli attuali disordini siano un fenomeno inaspettato e scioccante oppure di fatto lo sviluppo di una lunga storia di conflitto – una discussione che è stata stroncata dalla censura e da leggi molto severe sulla lesa maestà – dipende tutto da che punto si decide di partire.

Ma qualsiasi versione del passato recente si andasse a scegliere, non si può dire che siano insoliti nella politica thailandese né la violenza né una pericolosissima dedizione.

© BBC News
Traduzione Andrea Di Nino

venerdì, maggio 21, 2010

Osservazioni situazione politica Thailandia

Francesco Sisci per “Limes

L’ultima frontiera della democrazia. Il fallimento del soft power americano, cinese e di tutto l’occidente. Il violento scontro tra camicie gialle e camicie rosse. La paura che il crollo thailandese possa generare un effetto domino nelle zone più fragili del sudest asiatico.

La Thailandia è stata per secoli il ponte economico e culturale tra India e Cina, l’aristocrazia ha nomi di origine sanscrita, la gente mangia curry indiano, ma usa i bastoncini e i suoi imprenditori sono di origine cinese. La sua politica è un concentrato delle due civiltà e forse anche per questo è tortuosa, estremamente complicata, contorta come forse nessuna politica da altre parti del mondo.

La crisi politica thailandese attuale affonda le sue radici in questa tradizione e in questo terreno ed ha certo più strati di una cipolla, per spiegarla semplicemente bisogna cominciare con i personaggi principali e poi le azioni.

Ru Bhumibhol, classe 1928, al trono dal 1946. Il sovrano è il regnante più ricco del mondo, secondo Forbes, con una fortuna di 35 miliardi di dollari, per decenni lui e la sua corte sono stati l’ago della bilancia della politica thailandese ma lo sono stati in maniera defilata rispetto a una partecipazione politica diretta. In altre parole per decenni, in ultima istanza, ha tirato le fila della politica thailandese, attraverso la sua corte guardando passare decine di primi ministri, capi di coalizioni governo molto fragili e raccogliticce, e ben 18 colpi di stato. Il potere del re è controllato dalla costituzione, ma la corona è anche protetta da una legge molto severa sulla “lesa maestà”, che tutela il re in sostanza da ogni critica.

L’equilibrio politico intorno al re si rompe nel 2005 quando Thaksin Shinawatra, per la prima volta nella storia del Siam, ha vinto un secondo mandato elettorale e per di più a maggioranza assoluta. In queste condizioni Thaksin poteva fare a meno del re.

Thaksin Shinawatra, classe 1949. Ex colonnello della polizia, ha lasciato la divisa e si è messo in affari, prima nei computer e poi nella telefonia mobile. A metà degli anni ’90 aveva una fortuna di circa 4 miliardi di dollari ed era padrone della maggiore rete telefonica del Sudest asiatico. Ha però ambizioni politiche e dopo la crisi finanziaria del 1997 fonda il partito “Thai rak Thai” (Thailandesi per la Thailandia) che vince le elezioni del 2001 e del 2005. Per la prima volta attua una serie di politiche a favore della maggioranza rurale del paese: nasce una piccola borghesia dei villaggi che gli rimane fedele. Thaksin però decide anche di tagliare linee di credito a grandi aziende malridotte per la crisi del 1997: la grande borghesia di Bangkok e la gente che sta loro attorno gli diventa ostile.

Thaksin è accerchiato da accuse di corruzione e conflitto di interessi. Dopo la vittoria del 2005 vende la maggioranza delle azioni della sua società telefonica, Shin corp., all’azienda singaporeana Tamasek. Per non pagare tasse effettua la vendita attraverso società all’estero. Questa vendita e le mancate tasse danno origine di una serie di proteste di “camicie gialle”, persone che indossano quel colore in rispetto al re. Sono ultra-monarchici che accusano Thaksin di corruzione (perché non ha pagato le tasse), di tradimento (perché ha venduta la sua azienda a Singapore) e di “lesa maestà”, perché irrispettoso con il sovrano. I gialli chiedono le dimissioni di Thaksin e il ritorno alle urne. Thaksin scioglie le camere va alle elezioni e vince di nuovo. I gialli a questo punto riprendono le dimostrazioni e chiedono semplicemente le dimissioni di Thaksin, che
non recede.

Nel settembre del 2006 i militari organizzano un colpo di stato, il primo dopo 15 anni, durante un viaggio a New York di Thaksin. Thaksin rimane all’estero. I militari fanno una riforma costituzionale, sciolgono il partito Thai rak Thai e bandiscono dalle elezioni oltre cento massimi dirigenti del partito. I due miliardi di dollari della vendita della Shin corp sono congelati. Quindi a dicembre del 2007 indicono nuove elezioni. Fedeli di Thaksin organizzano rapidamente un nuovo partito e vincono le elezioni contro il partito democratico, ben visto dalla corte.

Nel 2008 riprendono le dimostrazioni dei gialli e si aprono dei casi giudiziari contro il premier in carica che viene costretto alle dimissioni. I filo thaksiniani ne nominano un altro ma anche questo subisce lo stesso destino. Intanto Thaksin ritorna in Thailandia, viene però presto chiamato in giudizio per corruzione, ma prima della condanna, ritorna all’estero. La tensione sale, fin quando, alla fine del 2008, alcuni thaksiniani si alleano ai democratici e va al potere il premier Abhisit.

Due questioni rimangono però aperte, la minore, cosa fare della fortuna di Thaksin congelata, e poi una maggiore, come gestire la successione al trono. La corte infatti non vorrebbe come successore il principe ereditario Maha Vajiralonkorn, e preferirebbe invece una delle principesse. Il principe ha infatti una fama pessima di debosciato inaffidabile, mentre le principesse sono virtuose. Ma per cambiare la linea di successione bisogna cambiare la costituzione, cosa non semplicissima. Inoltre Maha è amico di Thaksin. La morte del re potrebbe significare quindi non solo il ritorno di Thaksin ma anche la fine di tanti cortigiani che per anni hanno lavorato per cambiare la legge di successione al trono.

Dall’esilio però Thaksin organizza le camicie rosse, la risposta di movimento alle camicie gialle. Le camicie rosse, guidate da un ex generale, Khattiya, chiedono il ritorno alle urne e elezioni. Le camicie rosse fanno paura al governo composte da contadini militanti delle campagne del bellicoso Nordest, e per il loro leader. Khattiya è il generale con più esperienza di guerra dell’esercito Thai, ufficiale con la Cia degli insorti anti comunisti Hmong durante la guerra del Vietnam. Inoltre la richiesta di nuove elezioni è difficile da rinviare in eterno, e cambiamenti costituzionali, per la successione o per elezioni, sono complicati da portare avanti con una crescente protesta di piazza.

Alla fine del 2009 il governo decide di “punire” Thaksin intentando una causa di confisca della sua fortuna come compensazione per l’accusa di corruzione. Il 26 febbraio del 2010 arriva la condanna: 1,4 miliardi circa sono confiscati, ma anche il resto perde di valore poiché le azioni della Shin corp crollano. Da quel punto in poi le proteste dei rossi si intensificano. In qualche modo Thaksin crede di non avere più nulla da perdere, e suoi luogotenenti pensano di dovere agire prima di essere completamente schiacciati dal governo. Incombe ancora una minaccia infatti: a settembre devono essere rinnovati i vertici militari, il governo che li rinnoverà, al di là del risultato delle elezioni, sarà il vero padrone del paese.

I rossi a marzo intensificano le dimostrazioni chiedendo di andare subito alle urne, il governo resiste ma ad aprile risponde schierando l’esercito. L’esercito in effetti non ha voglia di reprimere le proteste. Sa che scorrerebbe del sangue e i generali sarebbero presto sacrificati dal governo che vorrebbe rifarsi una verginità con ufficiali “innocenti”. Manca poi una fiducia ampia nel sistema. Il re ha 82 anni, è in ospedale da settembre del 2009, potrebbe morire fra poco, tra sei mesi o un anno, ma di certo non durerà moltissimo, del principe si sa, quindi i generali attuali non vogliono sacrificarsi per una corte il cui equilibrio potrebbe presto mutare. D’altro canto proprio la prospettiva della successione mette urgenza agli anti Thaksin: devono eliminare rapidamente i rossi, consolidare la loro guida sull’esercito come premesse poi per eliminare il principe ereditario e sostituirlo con una principessa.

L’esercito si prepara a reprimere e l’8 aprile c’è un primo avvitamento dello scontro. Qualcuno spara granate contro la folla, ci sono decine di morti e 800 feriti, ma il sangue non spaventa i rossi i quali anzi si fanno più determinati, guidati da Khattiya che promette di resistere e sostiene anzi di potere sconfiggere i soldati mandati contro di lui con tattiche di guerriglia urbana.

Dopo la prima prova di forza fallita la situazione traccheggia per oltre un mese con tentativi di colloqui tra rossi e governo e nuovi scontri di piazza, allerte di repressioni ma senza confronti violentissimi come l’8 aprile. Il 12 maggio però un cecchino spara Khattiya alla testa mentre sta parlando con dei giornalisti. Khahttiya morirà poi il 16 senza riprendere conoscenza. Per molti dei rossi significa che non ci può essere più fiducia perché il governo assassina i suoi capi mentre colloqui sono in corso. Abhisit pensa che senza Khattiya la resistenza dei rossi si scioglierà, ma non è così. La situazione però continua a essere confusa perché il 16 maggio Abhisit proclama la legge marziale in alcune parti di Bangkok ma subito il capo dell’esercito generale Paochinda afferma che non c’è bisogno di legge marziale e quindi non la applica.

Le prospettive di evoluzione sono confusissime ma di massima sono le seguenti. Se il governo si “arrende”, richiama l’esercito e proclama subito le elezioni i thaksiniani vincono a grande maggioranza, il potere della corte viene drasticamente ridotto, il principe ha assicurato il suo futuro al trono e di fatto la forma di governo della Thailandia cambierebbe in maniera radicale. Se il governo cerca la soluzione di forza e non si arrende i rossi sono pronti alla guerriglia, il Nord est potrebbe spaccarsi e molti soldati e ufficiali, originari di quella zona, potrebbero disertare. Il paese andrebbe alla guerra civile. Soluzioni intermedie sono possibili, ma tali possibilità si assottigliano con il passare dei giorni perché il governo pensa che se si arrende ha tutto da perdere, mentre i rossi, dopo l’assassinio di Khattiya, pensano che se cedono loro, saranno fatti fuori ad uno ad uno. Si tratterebbe di trovare un’alchimia che salvi qualcuno, ma tale alchimia è difficilissima da trovare.

Le prospettive gravi sono per la regione. La Thailandia era il paese più ricco e democratico del sudest asiatico, se democrazia e benessere saltano qui è possibile che altri paesi, meno stabili e con una tradizione democratica più fragile, possano essere tentati a seguirne l’esempio. Ciò comporterebbe una involuzione politica ed economica in tutta la regione.

Per la Birmania, governata dai generali, sarebbe una benedizione: sarebbero stati dei precursori non un’eccezione nella regione. Per l’America e l’occidente, ansiosi da 20 anni di esportare diritti umani in ogni angolo del pianeta, sarebbe una sconfitta di proporzioni incalcolabili. Avrebbero perso la democrazia e il benessere economico in un paese dove democrazia e benessere sarebbero stati difendibili, la Thailandia, e invece hanno tentato di esportare la democrazia sulla punta dei fucili in Iraq o Afghanistan, con risultati meno che insoddisfacenti. Il soft power americano subirebbe un colpo dolorosissimo. Ma anche il soft power cinese, grande potenza emergente globale, non avrebbe da festeggiare. Pechino da 30 anni ha promosso una politica di stabilità politica, e la Thailandia oggi è tutto fuorché stabile, e anzi rischia di infiammare la regione diminuendo prospettive di scambi economici con la dinamo commerciale e industriale cinese.

giovedì, maggio 20, 2010

The Day After

BANGKOK - Un incendio è divampato nella Siam City Bank a Bangkok, nell'area di Din Daeng. Lo riferisce via Twitter un cronista dell'ANSA sul posto.

LEADER A CAMICIE ROSSE, SIATE PACIFICI - Siate pacifici: è l'appello di uno dei leader delle camicie rosse, Veera Musikapong, lanciato in tv ai sostenitori del movimento. Veera si è consegnato stamani alla polizia. "La democrazia non si può costruire sulla vendetta ed il rancore", ha aggiunto Veera, che preside l'Unione per la democrazia contro la dittatura (Udd).

"DAY AFTER" - In un'atmosfera da 'day after' dopo il cruento blitz per disperdere le 'camicie rosse' e l'anarchia che ne è seguita, Bangkok si è svegliata questa mattina in una situazione sostanzialmente pacifica, mentre le centinaia di manifestanti - tra cui molte donne e alcuni bambini - asserragliati per tutta la notte in un tempio buddista stanno uscendo scortati dalla polizia, dopo aver consegnato le armi. Nonostante una nottata in generale tranquilla, senza le esplosioni e gli spari di quelle precedenti, le autorità hanno comunque già esteso il coprifuoco per altre tre notti nella capitale e in 23 province del Paese; diverse aree, anche durante il giorno, rimangono off-limits e presidiate dai militari. I 34 incendi appiccati ieri sono stati quasi tutti domati, ma i danni procurati sono enormi. Il Central World, il più grande centro commerciale della capitale e della Thailandia, è in parte crollato, così come altri 'mall' minori e un cinema in Siam Square. L'edificio della Borsa ha invece riportato danni solo al primo piano, con le fiamme che non hanno pregiudicato la struttura. Secondo alcuni testimoni oculari, nel tempio Wat Pathumwanaram - dove fino all'una si sono verificate sporadiche sparatorie tra alcune 'camicie rosse' e i militari all'esterno - ci sono almeno sei cadaveri, morti per colpi di arma da fuoco. In precedenza fonti mediche avevano parlato di nove morti all'interno della pagoda.

ENORME CENTRO COMMERCIALE RISCHIA DI CROLLARE - Il più grande centro commerciale della Thailandia, situato nel centro di Bangkok, rischia di crollare dopo essere stato devastato ieri da un incendio appiccato durante e violenze seguite all'attacco da parte dell'esercito al quartiere occupato dalle 'camicie rosse'. Lo ha reso noto la polizia thailandese. Ieri sera, il sito del quotidiano The Nation, aveva riferito che erano crollate alcune parti dello shopping mall, un immenso edificio di sette piani.
"L'incendio al 'Central World' è sotto controllo, ma uno dei lati del centro ha cominciato a crollare", ha dichiarato un portavoce della polizia Prawut Thavornsiri. Il centro era stato chiuso dopo che i ribelli avevano occupato il quartiere, il 3 aprile scorso.

RESA CAPI 'ROSSI',UCCISO FOTOGRAFO ITALIANO
(di Alessandro Ursic)
Due mesi di protesta delle 'camicie rosse' thailandesi si sono conclusi con un blitz dell'esercito,penetrato nell'accampamento al centro di Bangkok in un'operazione che ha portato all'uccisione di almeno sei persone, tra cui un fotografo italiano, Fabio Polenghi. Ma la resa annunciata dai leader del movimento antigovernativo è stata seguita da pochi manifestanti, mentre gli altri si sono sparpagliati nella capitale appiccando il fuoco a decine di palazzi, tra cui la Borsa e il principale centro commerciale. "Atti di terrorismo", questi, che hanno spinto il governo a dichiarare il coprifuoco prevedendo la pena di morte contro i responsabili. In tarda serata, con centinaia di manifestanti - tra cui diversi feriti, ma secondo una fonte medica anche nove morti - intrappolati in un tempio al centro dell'ex bivacco "rosso", sparatorie sporadiche tra militari e dimostranti in corso anche nella notte mentre vaste aree centrali della capitale sono al buio e senza elettricità. Le tv nazionali, censurate dalle autorità militari che gestiscono la risposta alla protesta, trasmettono solo le disposizioni del governo e diversi siti di informazione funzionano a singhiozzo. Nella sua edizione online, il quotidiano Bangkok Post ha segnalato disordini anche in varie zone del nord-est, tradizionale 'territorio' delle camice rosse, con manifestazioni e edifici dati alle fiamme. A Chiang Mai, la città natale dell'ex premier della Thaksin Shinawatra, è stata incendiata la casa di un funzionario provinciale. Disordini sono stati segnalati anche nella municipalità di Udon Than e di Khon Keon. A Bangkok l'esercito ha sfondato le barricate a sud dell'accampamento intorno alle 8 di mattina, con l'ausilio di mezzi blindati. Un esiguo ma agguerrito gruppo di manifestanti ha cercato di rallentarne l'avanzata, innescando alcune sparatorie. In una di queste, sul lato nord del parco Lumphini, é stato ucciso il milanese Polenghi, colpito all'addome mentre stava fotografando i dimostranti in fuga. L'avanzata dell'esercito si è poi fermata ai margini dell'accampamento, mentre alcune migliaia di "rossi" rimanevano intorno al palco eretto presso la Ratchaprasong Intersection. La pressione ha però convinto i leader dei sostenitori dell'ex premier consegnarsi alla polizia, invitando i loro seguaci a fare altrettanto. L'annuncio è stato fischiato da una parte dei dimostranti, e subito dopo sono iniziate le devastazioni. Il Central World, un enorme centro commerciale di fronte al palco di Ratchprasong, è stato saccheggiato e poi dato alle fiamme, che si sono sviluppate per ore senza l'intervento dei vigili del fuoco. In tarda serata l'incendio non era ancora stato domato e parte dell'edificio è crollata. Lo storico Siam Theatre, un cinema nella piazza di Siam Square, è stato distrutto dal rogo. Il fuoco è stato appiccato anche al palazzo della Borsa, qualche chilometro a est dell'accampamento. In tutto, 27 edifici sono stati dati alle fiamme. Fino alle 6 del mattino di giovedi (l'una di notte in Italia) Bangkok è sotto coprifuoco, un provvedimento esteso ad altre 21 province del nord e del nord-est. Il primo ministro, Abhisit Vejjajiva, si è detto fiducioso che le operazioni militari "riporteranno la calma" nella notte. Esercito e polizia, ha annunciato la task-force militare che gestisce la risposta alla protesta, procederanno a "una repressione armata" contro chi si dà ad "atti di terrorismo", che prevedono - è stato specificato - la pena di morte come massima punizione. Le violenze, ha dichiarato il portavoce dell'esercito, hanno provocato sei morti e 59 feriti, tra i quali figurano tre reporter stranieri: un olandese, un canadese e un americano. Un medico ha però segnalato che all'interno del tempio di Wat Phatum, dove negli ultimi giorni avevano trovato rifugio in particolare donne e bambini, ci sono nove morti e sette feriti. Secondo un bilancio diffuso dal Bangkok Post, i morti sono stati almeno sette e i feriti 81. Sparatorie tra militari e alcuni manifestanti asserragliati hanno intralciato l'arrivo dei soccorsi: un giornalista australiano, che riesce a scrivere dall'interno del tempio, ha riferito di essere stato bersagliato mentre cercava, assieme ad un monaco, di aiutare un thailandese colpito al petto da una pallottola. Quasi tutti i leader della protesta si sono arresi senza opporre resistenza, mentre un altro, l'ex cantante Arisman Pongruangrong, è stato arrestato successivamente. Le autorità giudiziarie si sono già mosse anche contro lo stesso Thaksin, che dal suo autoesilio continua a finanziare le "camicie rosse" ed evoca la possibilità che ora si trasformino da pacifici manifestanti in pericolosi "guerriglieri". Contro l'ex premier, insieme ad altre nove persone, la Corte criminale ha spiccato un mandato di cattura per terrorismo.

Fonte: Ansa.it

mercoledì, maggio 19, 2010

Bangkok brucia ed il mio pensiero vola alle parole di Martin Luther King



“La violenza genera violenza, l’odio genera odio e l’intransigenza genera altra intransigenza.”
E’ una spirale discendente, alla fine non vi è che distruzione, per tutti. Invece, ci ricorda Martin Luther King, "La non violenza produce la trasformazione del mondo e il superamento del rancore.” Ma per fare tutto questo non bisogna accontentarsi, esorta King, degli spiccioli che ci vengono offerti".
Ma bisogna chiedere volere, desiderare e perchè no, lottare per un’energica trasformazione del mondo. Solo parole? Martin Luther King con la sua vita, dedicata a realizzare questo "sogno", ci ricorda che non è così.
Magari i rossi chiedevano questo e non sono stati ascoltati?
Mi sono deciso a scrivere queste poche righe su quello che accade in Thailandia in questo momento con un senso di sconfitta dentro.
Mi sento male perchè tutto questo io lo sapevo da anni, doveva succedere era inevitabile.
Come si può pretendere che un contadino lavori 12ore sotto il sole per 200THB al giorno mentre il Monarca più ricco del mondo viene venerato come un Dio?
l’ignoranza crea l’intolleranza di gente cieca e senza coscienza che è violenta, ma non per esigenza: è solo oppressa dalla sua stessa esistenza!
Perchè in Thailandia c’è questa realtà vieni condannato alla tua povertà, la tua ignoranza serve alle autorità perchè la cultura si paga a suon di milioni e sempre più è dei padroni, quelli che girano nei macchinoni sempre pronti a fare proclami.
Intanto il povero nei ghetti è relegato la dominanza è il suo stato solo questo la strada gli ha insegnato: il più violento viene rispettato.
Ma è l’ ignoranza che crea la violenza…
Nel paese dove studiare è roba da ricchi, dove si ha paura della polizia, dove si vendono finti sorrisi ai turisti e si tiene la rabbia dentro prima o poi si scoppia.
Guardate bene che i Thai ci odiano pure a noi turisti, da sempre, ma per esigenza non lo danno a vedere naturalmente. Il loro nazionalismo inculcato a forza fin dalla tenerà età, le regole da tenere in “pubblico”, il rispetto verso i ricchi e potenti, un sistema sociale classista con l'apice nella monarchia di stampo medioevale.
Brucia Bangkok!
Era inevitabile gente, questo era inevitabile!!!
Io lo sapevo, molti altri stranieri lo sapevano, solo i turisti “della domenica” potevano credere alla panzana del paese del sorriso, dove mangi, scopi e ti diverti con tre soldi e sono tutti gentili.
Cosa possiamo fare? Oppure cosa potevamo fare noi Farang residenti o vacanzieri di lungo termine?
NULLA.
Noi non possiamo fare altro che essere spettatori silenti di questa trasformazione, di un processo inevitabile e doloroso che forse darà i suoi frutti ma con il tempo.
Speriamo e preghiamo che meno sangue possibile venga versato, ma soprattutto che questi sacrifici non siano stati inutili.
I turisti cosa devono fare?
Quello che avete sempre fatto, spendere i soldi e godere degli ottimi servizi che la Thailandia offre con hotel, spiagge, mare e tutto il resto... Naturalmente quando tutto si sarà “stabilizzato”, quando rispunteranno i finti sorrisi dei Thai, quelli che ci hanno fatto innamorare a tutti almeno una volta. Ma per favore non dimenticate il sacrificio ed il sangue versato, vi prego basta stereotipi, la Thailandia è uno dei paesi più violenti al mondo, con un sistema politico corrotto oltre l'inverosimile, con abusi e violenze contro i più deboli indicibili, con i diritti umani che sono utopia! Pagate, divertitevi, ma poi lasciate questo mondo al suo destino, salvatevi.
Qui ho speso gli ultimi 10anni della mia vita, ho fatto famiglia, investito tutte le mie forze per creare qualcosa di grande. Mi sono ritrovato solo a mandar giù delusioni enormi una dietro altra, il mio è solo un castello di sabbia. Credevo di riuscire ad integrarmi, credevo che dopo tanti anni parlando la loro lingua mi avrebbero accettato, mi sono illuso di poter portare a questa gente un poco della mia esperienza. Mi sono illuso che il Farang potesse essere amico e non ATM dal quale attingere solo denaro. La verità è che perfino mia moglie è rimasta e sempre rimarrà THAI, perfino lei non capisce i miei discorsi, perfino lei vedendo la sua capitale bruciare con decine di morti a terra se ne esce con un terribile MAI PEN RAI (Non c'è da preoccuparsi)
Bangkok Brucia e mi sovviene il discorso di Martin Luther King, fantastico ipotetiche libertà, richieste di giustizia, i denari dei monarchi al popolo bisognoso. Mentre la mia mente vola vengo risvegliato dalle richieste di mia moglie YUU KHAO (Ho fame)!
OK andiamo a mangiare la zuppetta da 30THB con i bambini, e fanculo tutto, tanto qui a Phuket si sta bene. Chiunque si fa i cazzi propri sperano di vendere finti sorrisi ai pochi Farang rimasti, tanto da portare a casa i soldi della Rata per il Maxi Pick Up 5000CC con Rollbar cromato, cerchi enormi e stereo 5000watt il tutto contornato da luci al neon molto tamarre. Alimentiamo economia della tigre asiatica, così domani quando guardo il cambio mi ritrovo con 1Euro=30THB, e magari aspettiamo la parità assoluta 1Euro=1THB.
Bangkok Brucia, CIAO.

P.S. Scritto da Martino M. in quel di Rawai in un momento di profonda delusione davanti alla TV con immagini della capitale BKK in fiamme. Chissà cosa mai potrò pensare leggendo queste righe magari tra 10anni.

lunedì, maggio 17, 2010

Ferito un giornalista Italiano negli scontri odierni

Nel giorno in cui scade l'ultimatum ai manifestanti antigovernativi che da settimane protestano contro l'esecutivo chiedendone le dimissioni e invocando il ritorno alle urne e che da alcuni giorni sono asserragliati in un quartiere di Bangkok - scaduto alle 10 (ora italiana), l'esecutivo ha già fatto sapere che «l'operazione comincerà appena possibile» -, arriva la notizia di un fotoreporter italiano rimasto ferito durante gli scontri di domenica tra le forze dell'ordine e gli attivisti delle «camicie rosse».
FERITA NON GRAVE - Il giornalista, Flavio Signori, romano, di 40 anni, è stato ferito di striscio nella parte bassa della schiena e dovrebbe essere dimesso dall'ospedale in cui è stato ricoverato entro un paio di giorni. Il ferimento è avvenuto ieri a Rama IV, l'intersezione nei pressi del presidio delle camicie rosse teatro di violenti scontri tra dimostranti e forze di sicurezza. «Stavo scattando delle foto nei pressi del presidio dei militari - ha raccontato all'Ansa -. Quando mi sono spostato dietro la barricata dei rossi sono stato colpito».

MORTO IL «COMANDANTE ROSSO» - Nel frattempo si apprende l'ex generale dell'esercito thailandese Khattiya Sawasdipol, conosciuto con il nome di Seh Daeng («comandante rosso»), dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile sparato da un cecchino lo scorso 13 maggio durante le manifestazioni antigovernative, è morto, secondo quanto hanno reso noto fonti ospedaliere citate dall'Ansa. Il decesso è avvenuto in mattinata.

IL NUOVO BILANCIO - Intanto si rifanno i conti delle vittime. E’ di almeno 35 morti e 244 feriti il nuovo bilancio di tre giorni di scontri nella capitale thaliandese. Nella notte è deceduto anche un militare dell'esercito regolare, il primo dall’inizio degli scontri. Il soldato, 31 anni, era stato ricoverato in ospedale dopo essere rimasto ferito durante un0’attività di pattugliamento nel distretto di Silom, al confine con l’area in cui si trovano i rivoltosi.

Fonte Video e testo Corriere.it

domenica, maggio 16, 2010

Approccio degli USA al problema Thailandia

Il mese scorso, le strade di Bangkok sono state trasformate, da consueto ingorgo di traffico, in una combinazione di protesta politica, fiera di strada, e campeggio di massa. Decine di migliaia di manifestanti, principalmente dal nord e nord-est della Thailandia, vestiti di rosso, il colore del populista deposto ex primo ministro Thaksin Shinawatra, si sono intrufolati nella capitale. Hanno bloccato gli incroci principali, paralizzato i quartieri commerciali, assediato il Parlamento.

Anche se in un primo momento la protesta è andata avanti tranquilla, e se, curiosamente, i manifestanti ha gettato litri del loro sangue contro gli uffici del primo ministro, in questi ultimi giorni la tensione è montata. Nuovamente i manifestanti hanno sfidato la capacità delle truppe dell’esercito a mantenere l’ ordine. Pochi giorni dopo il primo ministro Abhisit Vejjajiva dichiarava lo stato di emergenza. Durissimi scontri nel weekend hanno provocato almeno venti morti e centinaia di feriti, sia tra i manifestanti che tra le forze di sicurezza, i quali si sarebbero sparati proiettili a vicenda.

Le proteste coronano cinque anni di pressoché costante subbuglio politico che hanno trascinato nell’abisso una democrazia a suo tempo prospera, lasciando la politica e l’economia in uno stallo debilitante. Nel quarto trimestre del 2009, l’economia della Thailandia è crollata di oltre il 6 per cento, e molte prenotazioni negli hotel a Bangkok e altri luoghi turistici sono diminuiti di oltre la metà. Il turismo è uno dei maggiori fornitori di valuta estera, ed è difficile convincere la gente a visitare il paese quando i manifestanti bloccano le strade e lanciano granate in città.

L’ex Primo Ministro Thaksin rimane una figura potente, anche se in esilio, tuttavia il movimento dei rossi è cresciuto molto anche in sua assenza, fino ad abbracciare più ampi ideali sociali.

Per certi versi queste manifestazioni sono semplicemente le immagini speculari delle proteste passate. Nel 2006 e nel 2008, i ricchi manifestavano indossando magliette gialle (il colore della monarchia). Chiedevano la rimozione di Thaksin e, successivamente, degli altri primi ministri filo-Thaksin. Le proteste dei gialli si dimostrarono estremamente efficaci. Sull’onda delle manifestazioni dei gialli del 2006, l’esercito intervenne con un golpe e rimosse Thaksin.

Successivamente, nel 2008, la magistratura, alleata della monarchia conservatrice, squalificò i ministri pro-Thaksin, permettendo ad Abhisit, un pupillo della borghesia urbana della capitale, di prendere il potere senza nemmeno dover vincere le elezioni.

Divisioni sociali e regionali

Gran parte dei media hanno rappresentato lo scontro rossi-gialli come una pura e semplice battaglia di classe. I rossi sono i poveri delle aree rurali, che costituiscono la maggioranza dei thailandesi e hanno beneficiato della generosità populista di Thaksin, mentre i gialli sono le élite privilegiate di Bangkok, compresi la monarchia, l’esercito, le grandi imprese, e la magistratura. I media d’ élite di Bangkok, come il quotidiano The Nation, ritraggono i manifestanti rossi, per lo più non violenti, come orde rurali dedite al saccheggio della capitale.

Certo, c’è qualche verità in questa frattura. Tuttavia il ritratto ricchi-versus-poveri è troppo semplicistico, come riduttiva è l’idea che le magliette rosse stiano dimostrando solo per far tornare Thaksin. Molte camicie rosse non sono povere. Al loro arrivo nella capitale, sono state appoggiate da tanti cittadini della classe media e medio-bassa di Bangkok, che infatti hanno indossato il rosso in loro sostegno. La stampa di Bangkok afferma che i rossi sono finanziati principalmente da Thaksin, in realtà hanno sviluppato le proprie reti sociali e le proprie fonti di finanziamento, che li rende un movimento con gambe solide.

Oltre che per la semplice divisione di classe, le proteste Thai sono il risultato di diverse fratture importanti che attraversano la società. In un certo senso, la battaglia è una battaglia tra élite.

Thaksin, miliardario delle telecomunicazioni, simboleggia i nuovi ricchi della Thailandia, che hanno sviluppato un rapporto antagonista con la tradizionale casta al potere, la quale tende a guardare dall’alto in basso i nuovi ricchi come Thaksin e i suoi più stretti collaboratori. La lotta incarna anche una divisione regionale, tra Bangkok e la Thailandia centrale, da un lato, e il nord e nord-est, storicamente abitato da minoranze nazionali e culture diverse, dall’altro. Inoltre le magliette rosse non rappresentano solo i poveri, ma i Thailandesi che si sentono esclusi: esclusi dai benefici della globalizzazione, che ha aggravato le disparità di reddito e sociali della Thailandia. Esclusi dal processo politico decisionale, che si concentra morbosamente a Bangkok. Esclusi dai centri tradizionali di potere: il potere giudiziario, l’esercito, i funzionari pubblici, la monarchia, i quali tendono ad essere molto conservatori e nepotistici.

Il problema della Monarchia

Dietro a tutto questo dramma grava una grande paura. Per sei decenni, il riverito re Bhumibol Adulyadej, il più longevo monarca regnante del mondo, ha intrapreso azioni ben distanti da quelle tipiche di un monarca costituzionale, sostenendo azioni di forza (colpi di stato) in occasione di ogni crisi politica pur di ristabilire l’ordine. Ora l’ottantaduenne re è malato e ha appena lasciato l’ospedale dopo mesi di malattia. Suo figlio, il principe ereditario, è conosciuto come un testa calda arrogante, ed è ampiamente disprezzato dai thailandesi. Durante il regno di Bhumibol mai il regime ha accettato di adottare meccanismi democratici, né un’effettiva divisione dei poteri. In mancanza di queste istituzioni, quasi tutti i thailandesi temono che ove il “Padre nostro”, come chiamano il re, esca di scena, il paese andrà fuori controllo.

Ciò che serve, allora, è semplice e difficile. La Thailandia abbisogna di concessioni politiche, di un maggiore federalismo, e di un dibattito serio e aperto sul futuro della monarchia. Il re ha tentato di incoraggiare questa discussione, ma finora senza successo. Rigide leggi sulla lesa maestà, difese dai monarchici di Bangkok, considerano un crimine anche solo discutere apertamente il futuro della monarchia. Con l’ invecchiamento del re, i realisti hanno adottato strette restrizioni delle libertà, come il blocco di almeno un centinaio di siti che hanno postato materiale relativo alla monarchia e, recentemente, arrestato il direttore di una delle più autorevoli pubblicazioni online tailandesi per non aver eliminato dal sito web i commenti critici del re.

La Thailandia ha anche bisogno di svolgere nuove elezioni (che il primo ministro Vejjajiva sembra restio a convocare). Ha bisogno che tutte le parti, compresi i militari, rispettino i risultati, anche ove trionfi un partito pro-Thaksin. La casta dirigente dovrà abituarsi all’ idea di perdere il potere.

Allo stesso tempo, i rossi, anzitutto la classe operaia, dovranno rendersi conto che non possono semplicemente calpestare i privilegi di lunga data dell’élite e della borghesia, correndo il rischio di infiammare nuovamente il sentimento di Bangkok.

Questo compromesso non è impossibile. Altri leader populisti in tutto il mondo, come Lula da Silva in Brasile, hanno saputo moderarsi, e prosperano come leader con un’ampia base popolare. Uno sbocco alla brasiliana è possibile anche in Thailandia. Certo, se la protesta si trascina, l’avvento di un arbitro neutrale appare sempre meno probabile. Viste le violenze di questo fine settimana rischia di prevalere nello Stato maggiore dell’esercito l’uso della forza contro i manifestanti, o addirittura un nuovo colpo di stato..

Per un nuovo approccio degli USA

Per gli Stati Uniti i disordini in Thailandia potrebbero avere gravi conseguenze. La Thailandia è un alleato decisivo, un partner importante nella guerra al terrore, un partner commerciale chiave e un leader dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico. I colpi portati alla democrazia thailandese hanno messo Washington in una posizione difficile, ma gli USA non devono ripetere gli errori del 2006, quando, in sostanza, hanno sostenuto il rovesciamento di Thaksin da parte dei militari, instaurando poi un rapporto cordiale con il governo messo su dall’esercito. Questa decisione poco saggia mise in cattiva luce gli Stati Uniti agli occhi della maggior parte dei thailandesi, quelli che avevano votato per Thaksin, e legittimò un governo militare corrotto e anni di paralisi politica.

Questa volta, l’amministrazione Obama dovrebbe chiarire che non intende tollerare un colpo di stato, anche se il governo di Abhisit cade o perde in eventuali elezioni. Se ad esempio si verificasse un colpo di stato, Washington dovrebbe essere pronta a cancellare la annuali esercitazioni militari congiunte con la Thais, denominate Cobra Gold. Washington inoltre dovrebbe chiarire che si aspetta da Abhisit, o da ogni altro eventuale governo thailandese, che tenga le elezioni entro la data annunciata, anche ove tornasse al potere un populista tipo Thaksin.

Molti funzionari thailandesi, ma anche alcuni funzionari americani, sostengono che gli Stati Uniti non dovrebbero adottare una simile “linea dura” per la democrazia in Thailandia, dato il rischio che la vittoria dei rossi spinga il governo di Bangkok più vicino alla Cina. Questo era uno dei motivi essenziali dell’appoggio americano al colpo di stato nel 2006. Ma Washington non può ingaggiare una corsa al basso con la Cina sul terreno dei diritti umani, e in ogni caso, gli Stati Uniti sono ancora in grado di fornire forme di cooperazione – in particolare, una qualitativa cooperazione militare che i thailandesi non possono ottenere dalla Cina.

Una soluzione della crisi in Thailandia è urgente. Se il governo e i manifestanti non recedono in fretta dal loro scontro, nuova violenza e un altro golpe, sono quasi assicurati. Visto che l’ultimo colpo ha fatto arretrare la democrazia tailandese di almeno un decennio, si può facilmente immaginare quanto disastrosa sarebbe oggi una stretta militare.

Tratto da: www.cfr.org – Council of Foreign Relations – Traduzione a cura della Redazione di Campo Antimperialista

sabato, maggio 15, 2010

Suicidio di una nazione

Lo scontro politico ha perso ogni equilibrio e si è trasformato in massacro, un bagno di sangue per le strade
di Francesco Sisci Fonte: lastampa.it

Il destino della Thailandia è quello paradigmatico di un paese dove lo scontro politico perde il suo equilibrio e diventa lotta barbara di sopravvivenza tra due gruppi contrapposti. Alla fine il risultato inevitabile, oggi come ai tempi antichi, lì come qui, è quello del sangue per le strade.

Bangkok era piena di militari in allerta rossa, bande contrapposte di militanti armati erano in cerca di uno scontro frontale, il paese pareva sull’orlo di una devastante e sanguinosa guerra civile. Questa era la città che fino a qualche settimana prima sembrava destinata a essere solo e per sempre la capitale del turismo, la Mecca del servizio per gli ospiti, il mondo dei sorrisi, il paradiso della vacanza.

La Thailandia che fino a qualche anno fa era leader del sudest asiatico, che pareva destinata a inseguire Sud Corea e Giappone sulla strada dello sviluppo, in pochissimo tempo ha deciso di suicidarsi. Oggi sembra cercare la morte come paese e seguire quindi compatta il destino del suo sovrano Bumiphol, ormai vecchio e malato: se il re è morente, lo stato pare volerlo seguire nella tomba.

I problemi attuali, che coinvolgono tutta la regione, riguardano due aspetti diversi ma collegati proprio nella persona del re. Uno evidente è l’incapacità del paese di trovare un punto mediano di accordo, di compromesso. Questo “equilibrio di equità”, che in inglese diventa “fair play”, è quel modo di convivenza politica per cui chi vince accetta di non stravincere e chi perde accetta di perdere. Tale accordo è la base della democrazia, chi perde le elezioni non perde tutta la sua fortuna o la vita.

Questo accordo è saltato in Thailandia quando alcuni poteri forti, dietro il re, hanno rifiutato il verdetto delle urne che consegnavano il potere a Thaksin. La conseguenza politica razionale sarebbe sata quella di istaurare una dittatura con una conseguente spietata repressione. Questo è accaduto nella vicina Birmania.

Ma in Thailandia le elite non hanno potuto o voluto istaurare una dittatura vera e volevano invece le sembianze di democrazia... senza però tornare alle elezioni. Ciò è evidentemente insostenibile perché senza repressione quelli che pensano di poter vincere le elezioni, in questo caso le camicie rosse leali a Thaksin, vogliono tornare alle urne e perciò protestano.

Le alternative sono estremamente difficili per il re: se istaura una dittatura chi comanda sono i generali, altrimenti è Thaksin. In entrambi i casi lui perde il potere

È la fine di un re che ha dominato il paese dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi in perenne equilibrismo di forze politiche diverse ma senza nessuna prevalente. Oggi questo è finito ma il nuovo assetto politico non è ancora nato.

Nel governo c’è da settimane l’idea di farla finita con le camicie rosse, solo che fino ieri era molto difficile nei fatti, poiché i militanti rossi erano guidati da Khattiya Sawasdipol, il generale con più esperienza di guerra della Thailandia. Khattiya prometteva di dare battaglia e spingere in ritirata le truppe che avessero tentato di ricacciare i dimostranti. Il governo in un scontro con i rossi poteva perdere centinaia di soldati ed essere comunque sconfitto sul campo.

Giovedì notte un cecchino ha sparato a Khattiya e qualcuno tra gli anti Thaksin pensa che senza la sua guida militare i rossi siano più facili da sgominare.

Potrebbero avere ragione, ma una soluzione militare funziona solo se spinta fino in fondo con una repressione dura e se si è pronti a subirne le conseguenze politiche ed economiche. Bangkok in mano a leader con le mani lorde di sangue non sarà più un paradiso delle vacanze, la sua economia si avviterà verso il basso e lo sviluppo della regione ne subirà le conseguenze. Non è chiaro se le elite di Bangkok sono pronte a tutto questo, e senza di questo le proteste, presto o tardi torneranno a esplodere.

Le parti dovrebbero trovare un compromesso razionale, ma in realtà una volta aperto il vaso di Pandora della politica emozionale nulla è più come prima e non c’è spazio per la ragione. Così il destino della Thailandia pare segnato, come per un malato terminale e ciò riprova anche una vecchia lezione dei sistemi democratici: sono fragili e vanno maneggiati da tutti con cura, il ritorno alla dittatura non è mai sconfitto per sempre e anzi è sempre in agguato.

Video & Notizie in dieretta da Bangkok sul forum ARIOS:
http://ariosforum.it/index.php/topic,1166.new.html#new

Sparano a civili disarmati:
http://www.youtube.com/watch?v=bxI1z266EXo&feature=player_embedded

P.S. I Video vengono regolarmente censurati e bloccati dal governo Thai, non so per quanto tempo i link funzioneranno.

venerdì, maggio 14, 2010

Ucciso da un cecchino leader dei rossi Khattiya Sawasdipol alias “Seh Daeng”

La situazione già difficile in Thailandia sta degenerando. Il duro braccio di ferro tra il governo e le "camicie rosse" fedeli all’ex premier Thaksin Shinawatra, che da due mesi chiedono nuove elezioni, è finito nel sangue. La vittima è l'ex maggiore dell'esercito Khattiya Sawasdipol (nella foto), uno dei leader "rossi" più radicali, ferito alla testa da un colpo di arma da fuoco nell'accampamento dei manifestanti antigovernativi a Bangkok. Da settimane migliaia di dimostranti restano rinchiusi, circondati da barricate, senza acqua potabile né corrente elettrica, pronti a nuovi scontri.

"Seh Daeng" - questo il soprannome del "comandante rosso" - è stato portato d'urgenza in ospedale dopo una raffica di proiettili udita nei pressi della Sala Daeng Intersection, dove le camicie rosse hanno eretto la loro barricata più estesa.

Dopo il fallimento delle trattative, Abhisit Vejjajiva, che governa da oltre un anno con il sostegno dell’esercito, ha disposto l'assedio al quartier generale delle "camicie rosse" nel centro della città, chiudendo tutte le vie di accesso all’area occupata dal 14 marzo: "Ho chiesto alle forze di sicurezza di riportare la normalità il prima possibile". Negli scontri di oggi è rimasto ucciso un uomo e il bilancio delle vittime degli ultimi due mesi di violenze è di 29 persone oltre a un migliaio di feriti.

Intanto il governo thailandese si accinge ha esteso lo stato di emergenza in altre 15 province, per cercare di controllare il movimento antigovernativo.

Che la situazione sia davvero grave lo dimostra anche il fatto che gli Stati Uniti hanno deciso di chiudere l'ambasciata, seguita da quella Inglese.

Fonte: libero-news.it

mercoledì, maggio 12, 2010

Esercito minaccia di tagliere luce & acqua ai rossi

Fonte: www.ansa.it

Thailandia, esercito minaccia di tagliere luce a acqua ai rossi

BANGKOK - Mettendo in pratica l'ultimatum dato dal primo ministro Abhisit Vejjajiva ai manifestanti antigovernativi, l'esercito thailandese intende isolare dalla mezzanotte di stasera (le 19 in Italia) l'accampamento delle "camicie rosse" nel centro di Bangkok, tagliando i rifornimenti di acqua e corrente elettrica, invitando inoltre all'evacuazione gli abitanti dei quartieri circostanti. "E' l'inizio delle misure per la piena applicazione della legge.

Dopo mezzanotte le autorità non lasceranno più entrare nessuno", ha annunciato il colonnello Sansern Kaewkamnerd, portavoce delle forze armate, dopo una riunione dei vertici con il governo in mattinata. "Se i manifestanti hanno sinceramente accettato il piano di riconciliazione nazionale come dicono, allora dovrebbero andare a casa entro il 12 maggio e discutere successivamente degli altri dettagli", aveva detto nei giorni scorsi Abhisit. La decisione odierna segnala che la pazienza delle autorità é agli sgoccioli, dopo che i "rossi" - sostenitori dell'ex premier Thaksin Shinawatra - hanno accettato la proposta di andare a elezioni il 14 novembre, accompagnando però il loro "sì" a una serie di richieste supplementari, tra cui quella al vicepremier Suthep Thaugsuban di consegnarsi alla polizia in relazione alle violenze del 10 aprile.

Ieri Suthep si è effettivamente presentato al Dipartimento delle indagini speciali (Dsi), per apprendere che contro di lui non c'é nessuna accusa. I manifestanti antigovernativi non sembrano avere intenzione di lasciare il loro accampamento, che presidiano dal 3 aprile. "Nessuno, tra le camicie rosse, ha paura della minaccia di tagliarci l'acqua e la corrente. Inseguiremo i soldati a mani nude, anche se ci sparano con i fucili", ha detto Weng Tochirakarn, uno dei leader. La zona occupata dai dimostranti, che comprende diversi centri commerciali e hotel di lusso costretti alla chiusura, appare ampiamente fornita di generatori. Ai margini dell'accampamento hanno la loro sede anche diverse ambasciate.

lunedì, maggio 10, 2010

Venti di pace finalmente...

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BANGKOK (Reuters) - Le camicie rosse thailandesi hanno annunciato oggi di aver accettato la tempistica proposte dal governo per lo scioglimento del Parlamento e l'offerta di tenere nuove elezioni il 14 novembre, ma hanno detto che porranno fine alle loro azioni di protesta sono quando il vicepremier si consegnerà alla polizia.

L'offerta, giunta dal premier Abhisit Vejjajiva, rientrava in un piano per cercare di porre fine alla crisi, che ha lasciato dietro di sé 29 morti e ha allontanato i turisti dal Paese.

Nattawut Saikua, uno dei leader delle camicie rosse, ha detto che il vicepremier Suthep Thaugsuban deve essere considerato responsabile della morte di 25 persone nel corso degli scontri tra militari e manifestanti il 10 aprile scorso, e ha detto che deve consegnarsi alla polizia, altrimenti la protesta continuerà.

"Una volta che Suthep si sarà consegnato alla polizia, (le camicie rosse) si disperderanno e torneranno a casa", ha detto Nattawut ai suoi sostenitori.

Suthep ha sempore rifiutato di essere considerato repsonsabile per gli incidenti mortali occorsi durante gli scontri, nei quali sono rimaste ferite più di 800 persone.

Le camicie rosse, che manifestano da metà marzo per chiedere nuove elezioni, sono accampate nel distretto commerciale di Bangkok dal 3 aprile scorso.

-- Sul sito www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano. Le top news anche su www.twitter.com/reuters_italia

venerdì, maggio 07, 2010

Le camicie rosse rivendicano le loro origini rurali...


Le camicie rosse rivendicano le loro origini rurali, sovvertendo le tradizionali dinamiche politiche in un Paese dominato da Bangkok

La parola è sempre quella, ma è l'uso che è cambiato. Prima, in Thailandia, dire "prai" a qualcuno era una specie di tabù: e come poteva essere altrimenti, dato che significa "plebeo". Nelle loro manifestazioni ancora in corso a Bangkok, le "camicie rosse" rivendicano invece con fierezza le loro origini rurali, popolari, lontane dall'elite della capitale. E si danno del "prai" da soli, come elemento fondante del loro movimento. Che a prescindere da come si risolverà la crisi in corso, ha cambiato le dinamiche politiche del Paese per sempre.

"Prai", nei tre caratteri con cui lo si scrive in thailandese, lo trovi stampato sulle magliette, pronunciato nelle arringhe dei leader, ripetuto con orgoglio dai vari dimostranti che da quasi due mesi dormono sull'asfalto di Bangkok. La contrapposizione chiave è quella con gli "ammat", gli aristocratici, parola con cui ormai si intende l'intero "vecchio ordine" che ha sempre controllato l'economia del Paese, con una distribuzione del reddito tra le più ineguali in Asia. Un'altra t-shirt che va per la maggiore, tra i "rossi", contiene la scritta "Tutto quello che fai tu è giusto, tutto quello che faccio io è sbagliato", con riferimento al "doppio standard" di trattamento tra ricchi e poveri in Thailandia.

Visto da fuori, forse non si percepisce come questo sia un sentimento nuovo. Ma per la cultura e la società thailandesi si tratta di una mezza rivoluzione. Un Paese dove l'obbedienza e il rispetto verso l'autorità vengono inculcati fin da piccoli, dove il "siamo tutti thailandesi, pacifici e sorridenti" è ancora oggi adottato dalle autorità come una specie di regola di condotta valida per tutti, dove tra i benestanti di Bangkok e i "contadini" delle popolose aree rurali c'è una barriera psicologica profonda, si trova ora con milioni di "plebei" che hanno rotto il patto non scritto di essere ossequiosi e pazienti. Non a caso, nell'ultimo anno la propaganda governativa ha investito pesantemente sul concetto del "siamo tutti thailandesi", creando slogan come la "società della moderazione". Ma non sta funzionando.

Tradizionalmente, in un panorama più pragmatico che ideologico e con una diffusa compravendita di voti, la politica - come l'economia - era dominata da Bangkok. Al resto, specie nel popoloso e rurale nord-est, arrivavano le briciole. L'ex primo ministro Thaksin Shinawatra, in autoesilio dopo essere stato deposto da un golpe nel 2006 ma tuttora il punto di riferimento delle camicie rosse, quando era al governo scoperchiò il vaso di Pandora delle campagne, dando una sanità pubblica quasi gratuita e ampi programmi di microcredito ai villaggi e alle piccole città sempre trascurate. Populismo, accusavano i suoi critici; finalmente un politico che pensa a noi, ribattevano i suoi sostenitori. Comunque sia, oggi chi governa il Paese non può permettersi di tornare alle vecchie abitudini; tanto che l'attuale premier Abhisit Vejjajiva, per accrescere la sua minima popolarità nelle aree rurali sta copiando molte politiche introdotte da Thaksin. Con scarsi risultati sul suo gradimento: essendo il rampollo di una famiglia di "ammat", i "prai" non si fidano. Il miliardario Thaksin, almeno, può rivendicare di "essersi fatto da solo"; per quanto sia un'esagerazione creata ad arte, già il fatto di venire dal nord lo rende più vicino alla massa dei suoi elettori.

Mentre i "rossi" sono ancora accampati nel centro di Bangkok, tra centri commerciali e hotel di lusso in cui gran parte di loro non è mai entrata, una via d'uscita alla crisi iniziata due mesi fa pare in via di definizione. Abhisit ha proposto di andare a elezioni il 14 novembre, oltre un anno prima della scadenza del suo mandato (è salito al potere con un ribaltone parlamentare, dopo che i giudici avevano sciolto due governi filo-Thaksin); i leader dei "rossi" vogliono più rassicurazioni sulla loro posizione legale. Qualunque sarà la data, è probabile che al voto il primo partito sarà il Puea Thai, composto dai fedelissimi di Thaksin. C'è già chi teme che tutto ricominci un'altra volta, in quel caso, con l'establishment che cerca di riprendersi il potere, riprendendo il processo iniziato col colpo di stato quattro anni fa. Ma tornare indietro alle vecchie abitudini, con i "prai" disinteressati alla politica perché tanto i politici sono tutti uguali, non sembra più un'opzione.

Alessandro Ursic

giovedì, maggio 06, 2010

Il primo ministro ha promesso oggi lo scioglimento della Camera bassa tra il 15 ed il 30 settembre!

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BANGKOK (Reuters) - Le "camicie rosse" thailandesi si sono rifiutate oggi di abbandonare l'area presidiata, nell'attesa che il primo ministro definisca una data per sciogliere il parlamento, anche se ci sono buone possibilità di un accordo.

I manifestanti hanno comunque risposto positivamente alla proposta di Abhisit Vejjajiva di indire elezioni il 14 novembre, nel tentativo di porre fine ai due mesi di proteste in cui sono morte 27 persone.

Secondo la costituzione, il parlamento deve essere sciolto 45-60 giorni prima delle elezioni.

-- Sul sito www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano.


(ANSA) - BANGKOK, 6 MAG - Il primo ministro Abhisit Vejjajiva ha promesso oggi lo scioglimento della Camera bassa tra il 15 ed il 30 settembre. Lo scioglimento rendera' possibile l'indizione di nuove elezioni a meta' novembre. Le 'camicie rosse', che manifestano contro l'attuale governo, hanno accettato il piano del premier di elezioni anticipate il 14 novembre, ma attendono la data esatta dello scioglimento del Parlamento prima di porre fine alle manifestazioni. La crisi va avanti da 2 mesi.

lunedì, maggio 03, 2010

Situazione Bangkok al 03 Maggio 2010

Comunicazione di servizio: Sarò in ferie fino al 06-05, non garantisco aggiornamento delle news.

Martino M.



» 03/05/2010 10:45
THAILANDIA
Il premier thai propone una “road map” per la riconciliazione e nuove elezioni
Abhisit Vejjajiva avrebbe elaborato un piano per la dissoluzione del Parlamento e nuove elezioni, prima dei nove mesi proposti in precedenza. Esso prevede anche la nascita di un comitato, chiamato a riscrivere la costituzione. Le “camicie rosse” proseguono la protesta. Organismo indipendente: la Thailandia vicina a una “guerra civile non dichiarata”.

Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – Il premier thai Abhisit Vejjajiva intende promuovere una “road map” per la riconciliazione nazionale, che metterà fine alla protesta delle “camicie rosse”, giunta all’ottava settimana. È quanto rivela il Bangkok Post, secondo cui il piano porterebbe alla dissoluzione del Parlamento e a nuove elezioni. Per il momento i dimostranti non intendono abbandonare il distretto commerciale della capitale, scelto come quartier generale. Tuttavia, i leader hanno rimosso una parte delle barricate per favorire l’accesso all’ospedale assaltato il 30 aprile scorso.
La “road map” elaborata dal governo verrà diffusa “entro uno o due giorni” e servirà ad accelerare il processo di dissoluzione del Parlamento, con un margine di anticipo rispetto ai nove mesi proposti in precedenza dal premier ai leader “rossi”.
Abhisit parla di “riconciliazione” quale primo obiettivo da raggiungere, per poi affrontare in piena legalità il percorso che porterà alle urne. Fonti vicine al Primo Ministro aggiungono che il piano di riconciliazione prevede anche la nomina di un comitato chiamato a riscrivere la Costituzione.
Il nuovo testo dovrebbe rappresentare un misto fra la Carta del 2007 – sostenuta dalle “camicie gialle” e dai partiti di governo – e la Carta del 1997, che andrebbe reintrodotta per intero secondo le “camicie rosse” e i movimenti di opposizione. Sempre ieri l’esecutivo ha inoltre approvato lo stanziamento di un “fondo speciale” per le forze dell’ordine, chiamate a contenere le proteste ed evitare, al contempo, ulteriori spargimenti di sangue. Verranno aumentati i punti di controllo all’interno della capitale, che passeranno da sei a nove.
I leader delle “camicie rosse” – vicine all’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra e sostenute dal partito di opposizione United Front for Democracy against Dictatorship (UDD) – continuano la protesta a oltranza, nonostante l’allerta per possibili nuovi scontri. Iniziata a metà marzo, la rivolta degli antigovernativi ha sinora causato la morte di 27 persone e il ferimento di oltre 900.
Come gesto di buona volontà, i manifestanti hanno rimosso le barricate di pneumatici e bambù nelle vie di accesso al ospedale Chulalongkorn, poco distante dal loro presidio. Lo scorso 30 aprile un gruppo di “camicie rosse” ha assaltato la struttura a caccia di militari governativi. Un gesto estremo, condannato non solo dall’esecutivo, ma anche dagli altri leader dell’opposizione.
Intanto l’organismo indipendente International Crisis Group (Icg) avverte che “lo scontro tra governo e camicie rosse è in progressivo peggioramento” e potrebbe sfociare in una “guerra civile non dichiarata”. Il gruppo, impegnato a prevenire o risolvere i conflitti, aggiunge che “una mediazione straniera” potrebbe essere “la sola via” per affrontare il problema. Icg propone che a mediare sia José Ramos-Horta, presidente di Timor Est e Nobel per la pace.
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