Il mondo se n’è già dimenticato. Ma in Thailandia, dove ai fantasmi si è sempre dato un certo peso, si fa fatica a mettere una pietra sopra quei giorni. Cinque mesi fa, televisioni e giornali di ogni angolo del pianeta mostravano le immagini di una Bangkok teatro degli scontri tra l’esercito e le cosiddette “camicie rosse” con il risultato di 91 morti, 1300 feriti e 27 edifici distrutti. Ora che il sangue è asciutto e che il traffico è ritornato ad ingolfare le strade della capitale tailandese, il mondo ha già spostato lo sguardo altrove, a cercare altre stragi, altri eroi, altri drammi. Massacri simili e “sanguinosi maggi” dopotutto non sono una novità nella storia tailandese recente e sono tutti sfociati nel nulla: perché questo dovrebbe essere diverso da quelli del passato?
«Ci siamo cascati tutti» mi ripete un accademico occidentale cercando di essere in qualche modo consolatorio. Tutti, il 19 settembre del 2006, avevamo applaudito i militari che avevano ribaltato il governo Thaksin con un colpo di stato non violento. Tutti noi, la mattina seguente, eravamo per strada assieme a tanti bangkokiani a portare gelati e bibite fresche ai soldati di guardia in ogni angolo della città. Tutti ci eravamo fatti fotografare davanti al Palazzo del Governo, accanto ai militari, sullo sfondo dei carro armati dai cui cannoni, proprio come recita una vecchia canzone pacifista italiana, uscivano letteralmente fiori anziché munizioni. Tutti eravamo convinti che quel colpo di stato, per quanto logicamente fuorilegge, fosse una cosa buona per la Thailandia. Ed avevamo certamente delle ottime ragioni per farlo.
Thaksin: uomo d’affari multimiliardario (in Europa famoso per essere stato proprietario del Manchester United dal 2007 al 2008) in un paese di poveri ricchi di scheletri – scheletri veri e propri – nell’armadio; corrotto all’inverosimile, come il giornalista Sondhi aveva dimostrato all’intero paese da un palco alzato nel centro di Bangkok; arrogante e sprezzante di ogni autorità, voci di corridoio dicevano fosse intenzionato ad usurpare il potere dall’amatissimo e venerato re per rimpiazzare la monarchia con una repubblica, di cui si sarebbe fatto presidente; responsabile nel 2003, in barba ai diritti umani, di aver scatenato una “guerra alla droga” che si era lasciata alle spalle 2.500 uccisioni per mano delle autorità, delle quali più della metà giustificate da ragioni politiche, ed in merito alle quali, interrogato dalla comunità internazionale, aveva risposto che “le Nazioni Unite non sono mica mio padre”.
Thaksin si era rivelato un dispotico calcolatore, capace con le sue bravate di mettere completamente in ombra le valide riforme, dalla sanità all’istruzione, grazie alle quali si era sempre aggiudicato la maggioranza alle urne. Non ci eravamo forse sbagliati di molto nel prendere le distanze da Thaksin, ma forse avremmo dovuto ascoltare meglio un vecchio proverbio tailandese che mette in guardia dal “fuggire dalla tigre per trovare un coccodrillo”. I militari, togliendo i fiori dai cannoni, abolirono la costituzione introducendo la legge marziale, censurarono i mass media a tappeto e cancellarono le elezioni democratiche, previste per lo stesso novembre, promettendo di ristabilirle “entro un anno”.
Le elezioni furono invece indette soltanto quindici mesi dopo, nel dicembre del 2007, e chi le vinse fu nuovamente il partito di Thaksin, nonostante quest’ultimo fosse in esilio. Un gruppo di tailandesi, composto per la maggioranza da bangkokiani, capitanati dal giornalista Sondhi, ormai diventato leader politico, scese quindi in piazza indossando camicie gialle, il colore del re, dando inizio ad una serie di manifestazioni che sfociarono nell’occupazione del Palazzo del Governo, per quattro mesi consecutivi, e dell’aeroporto internazionale di Bangkok, per una settimana. In modo a dir poco “bizzarro”, per parafrasare il reporting della CNN in quell’occasione, il thaksiniano primo ministro Samak fu costretto a dare le dimissioni nove mesi dopo, accusato di conflitto d’interessi per aver partecipato, dietro compenso, ad un programma televisivo culinario, dove aveva presentato la sua ultima creazione gourmet, lo “stinco in Coca Cola”; e il suo successore, Somchai, venne rimosso dopo altri due mesi con l’accusa di frode elettorale. Abhisit, leader dell’opposizione, fu quindi eletto premier dal parlamento.
Le camicie rosse diedero allora il cambio al precedente movimento giallo, organizzando manifestazioni in un clima di crescente censura da parte del governo Abhisit. Il 12 marzo 2010, convinti della loro imminente vittoria in virtù del consistente seguito popolare, a migliaia entrarono a Bangkok trionfanti a bordo di pick-up, rimorchi, bus, treni ed altri mezzi di fortuna, con bandierine e fascette rosse attorno alla fronte, per protestare e chiedere le elezioni. Dopo due mesi d’occupazione dell’area più centrale della città, il primo ministro Abhisit, dichiarando lo stato d’emergenza che proibisce raggruppamenti di più di cinque persone, rendeva automaticamente fuorilegge la distesa di manifestanti radunata nella capitale, dando il via libera all’intervento militare che sarebbe culminato nel massacro del 19 maggio.Oggi, le bombe rinvenute regolarmente in giro per Bangkok, della cui paternità il governo ed i rossi si accusano reciprocamente, fanno sì che lo stato d’emergenza non venga ancora ritirato dalla capitale. Soldati con fucili in braccio e dita sul grilletto camminano avanti e indietro in varie parti della città e davanti ad ogni stazione del treno elevato, per ricordare ai simpatizzanti rossi chi ha il controllo della zona e, contemporaneamente, per non far scemare il livello di tensione nella capitale. La censura, giustificata dallo stato d’emergenza, ha raggiunto un livello imbarazzante, in cui ogni dissidente può essere arrestato perché “dannoso per la stabilità nazionale” in quanto “promotore di disunità tra il popolo”.
Editori, giornalisti e webmaster pro rossi sono quindi dietro le sbarre, i siti internet vengono chiusi a ripetizione, le pubblicazioni più critiche subiscono la sospensione; recentemente, persino una venditrice di ciabatte raffiguranti i volti di parlamentari sulla suola è stata tratta in arresto. Un numero imprecisato di camicie rosse restano in cella e rischiano la pena di morte per “terrorismo”, mentre nuove manifestazioni sono tassativamente vietate, anche se il governo ogni tanto concede ai rossi di protestare per mezza giornata in qualche area designata.
Le camicie gialle hanno invece protestato più volte a Bangkok, e nei loro confronti non è stato preso alcun provvedimento; il premier in un’occasione si è anzi unito a loro per una discussione. Le occupazioni di governo ed aeroporto durante le manifestazioni delle camicie gialle restano impunite a causa di processi che non iniziano mai. Allo stesso modo, i responsabili del colpo di stato del 2006 sono a piede libero, protetti da un emendamento della costituzione.
Anche se il mondo ha distolto l’attenzione dalla Thailandia, e i turisti hanno rincominciato ad atterrare al Suvarnabhumi come se niente fosse, il paese del sud est asiatico, la cui spensieratezza e cordialità gli valse il nome di “Terra dei Sorrisi”, continua a fare i conti con le conseguenze del suo passato recente. Dietro le porte delle case, nei vicoli, nelle risaie di campagna, le persone continuano a parlare. Anzi, come mi ha fatto notare una camicia rossa nella provincia di Udon Thani, parlano forse ancora più che nel periodo pre-censura. I fantasmi del massacro sono vivi come non mai.
(pubblicato su China Files)