Le lacrime del vecchio Noi Jaitang nelle foto pubblicate sui
giornali thailandesi del 9 marzo 2010 avevano commosso l’intero Regno.
Piangeva alla lettura della sentenza con la quale si ordinava di
riaprire quasi tutte le fabbriche chiuse a causa del pesante inquinamento dell’aria e del suolo nell’area di un enorme complesso petrolchimico a Map Ta Phut, nel sud della Thailandia.
Noi ha vissuto gran parte della sua vita di contadino in uno
dei numerosi villaggi trasformati dagli anni ‘80 in periferie
dell’inferno, 170 km a est della capitale Bangkok. Da quando 200
industrie ad altissimo potere inquinante si sono insediate su quasi
mille ettari lungo 15 chilometri di una delle coste un tempo più belle
del Paese, Noi ha perso sei familiari uccisi dal cancro, e anche sua
moglie si è vista diagnosticare due tumori cutanei.
Oggi che uno dei più gravi incidenti nella storia dell’area
industriale ha confermato la pericolosità degli impianti responsabili
delle disgrazie di Noi e di altre migliaia di residenti, non sappiamo se
sua moglie sia ancora viva, o se altri parenti siano stati colpiti
dalla potente esplosione che il 5 maggio scorso ha ucciso 12 persone e
ne ha ferite seriamente altre 130 nella fabbrica Bangkok Synthetics Co
(BST), dove si producevano butadiene a altre sostanze usate per resine e
plastiche sintetiche.
Di certo, con la sua immagine di rassegnata disperazione, Noi Jaitang
è ancora oggi il simbolo di un ineluttabile destino toccato a 200mila
tra lavoratori e abitanti dei 30 villaggi di questo distretto sottoposti
da quasi trent’anni a una strage silenziosa. Prima dell’incidente di
sabato, con le sue vittime allineate tutte insieme nelle camere
mortuarie degli ospedali, le Ong locali avevano già calcolato almeno
duemila decessi per cancro e malattie alle vie respiratorie, il tasso
più alto di tutta la Thailandia (sette volte più della media nazionale,
secondo i dati dell’Istituto Nazionale dei Tumori). Senza contare i
problemi delle piogge acide e della qualità dell’aria (nel ’97 centinaia
di studenti e insegnanti di una scuola locale sono stati ricoverati in
un solo giorno con problemi respiratori) e i numerosi casi di “abnormità
cromosomiche” registrati nei bambini nati attorno all’area industriale,
con un incremento senza precedenti di malformazioni degli organi
vitali. http://www.youtube.com/watch?v=GMGn7B8KV…)
Map Ta Phut – 8 miliardi di euro di fatturato annuo (4,50 per
cento del prodotto interno lordo thailandese) – è all’ottavo posto
nella classifica degli impianti petrolchimici più grandi del mondo, e
fin dall’inizio gruppi ambientalisti, Ong locali come Eastern People’s Network e perfino istituzioni pubbliche hanno denunciato il delicato conflitto tra gli interessi dell’economia nazionale e quello degli esseri umani sacrificati al “progresso”.
Dal maggio del 2009 – secondo il Dipartimento nazionale di controllo sull’Inquinamento - ci sono stati 25 incidenti gravi con diverse vittime e centinaia di feriti nelle fabbriche di composti chimici (compresa la stessa Bangkok Synthetics), sei
dei quali in conseguenza degli scarichi illegali, nove avvenuti durante
il trasporto delle sostanze, sette nella manifattura, tre presso le
stazioni di servizio per la benzina e nei negozi di riciclaggio dei
rifiuti. Inoltre dal marzo del 2011 a oggi è stata riscontrata
nell’organismo di numerosi pazienti degli ospedali e delle cliniche
attorno a Map Ta Phut una quantità enormemente superiore alla norma di
sostanze nocive emesse da solidi e liquidi prodotti in quest’area, in
particolare gas butadiene (lo stesso della fabbrica esplosa),
cloroformio, dichloroethane, benzene.
Dopo l’esplosione di sabato scorso, talmente potente secondo
alcuni testimoni da sollevare un camion di parecchi metri da terra,
centinaia di abitanti sono stati evacuati per paura di una pericolosa
esposizione alle sostanze gassose nocive rimaste sospese nell’aria. In
mancanza di alternative, molti sono però tornati già a casa, ma altri
non si fidano delle garanzie offerte dall’Autorità statale delle
proprietà industriali (IEAT), secondo la quale l’incidente avrebbe
sprigionato “soltanto” gas toluene, capace di provocare problemi
respiratori e irritazioni cutanee ma non cancro. Inoltre domenica, poche
ore dopo l’incidente della Bangkok Synthetics, una consistente quantità
di ipoclorito di sodio usato come disinfettante e candeggina, è
fuoriuscito da un altra fabbrica nella vicina area industriale della
Seaboard Estate.
Il primo ministro thai Yingluck Shinawatra si è subito recata
sul posto a verificare l’entità dei danni provocati e il ministro
dell’Industria ha annunciato tre diverse inchieste per verificare le
condizioni di sicurezza del grande complesso industriale definito un
tempo il “fiore all’occhiello” dello “sviluppo sostenibile”. Ma come in
passato, presto si riproporrà il problema della sorte futura dell’intero
colosso industriale nel quale investono in diversi campi anche grandi
compagnie straniere come l’americana Dow Chemical Co. (che acquistò la
famigerata Union Carbide responsabile della strage di Bhopal in India),
la tedesca Bayer, l’australiana BlueScope Steel Ltd., oltre a giganti
nazionali come la PTT e la Siam Cement.
Più volte a causa delle vertenze giudiziarie sollevate dagli
ambientalisti, i potenti partner e investitori giapponesi hanno
minacciato di abbandonare l’area per trasferire i loro interessi in
Vietnam, Indonesia e Singapore, così che magistratura e politici hanno
dovuto lasciare molte fabbriche a rischio libere di operare in
Thailandia nonostante le scarse garanzie di sicurezza. E’ in questo
contesto che un’altra grande compagnia nazionale, la Italian Thai (oggi a totale capitale thailandese, responsabile
delle infrastrutture del complesso petrolchimico) sta cercando di
ottenere finanziamenti per trasferire altre produzioni pericolose – ed
eventualmente parte dei residui inquinanti di Map Ta Phut – nel nuovo
complesso industriale di Dawei, un tratto di costa ancora incantevole a
sud della Birmania.
E’ un’area dieci volte più grande di Map Ta Phut, dove è
previsto – oltre al nuovo polo industriale – un enorme porto di acque
profonde per le navi transoceaniche in grado di far arrivare e partire
petrolio e derivati da e per l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente, così
da evitare il lungo percorso attraverso lo stretto di Malacca.
Ma i precedenti di Map Ta Phut hanno messo in allarme le
nuove autorità birmane, che a differenza del passato si dicono più
sensibili ai temi ambientali e soprattutto ai delicati rapporti
internazionali in vista di un alleggerimento delle sanzioni economiche.
Questa svolta – imprevista ai tempi delle prime concessioni – ha
costretto la Italian Thai ad ammettere i passati fallimenti in termini
di sicurezza e salvaguardia ambientale in patria. “Poiché abbiamo
imparato da Map Ta Phut - ha detto il presidente Premchai Karnasuta –
in Birmania non saranno fatti gli stessi errori. Map Ta Phut – ha
aggiunto – è stato realizzato venti anni fa, mentre oggi abbiamo nuove
tecnologie per controllare l’ambiente”.
Nonostante queste assicurazioni, però, il ministro
dell’Energia del Myanmar, Than Htay, ha detto che prima di Dawei saranno
sviluppate altre due Zone economiche speciali: Thilawa a ridosso della
ex capitale Rangoon, e Kyaukphyu, un’isola incantevole a sua volta già
compromessa dagli impianti per un gigantesco gasdotto diretto in Cina.
Vuol dire che qualunque sarà la decisione presa, altri ambienti naturali
e la vita di migliaia di persone subiranno presto le sorti di Map Ta
Phut. Nonostante la transizione apparentemente pacifica di questi mesi,
neanche la nuova democrazia birmana sembra capace infatti di finanziarsi senza sacrifici umani.
Fonte: http://bultrini.blogautore.repubblica.it/2012/05/08/lacrime-di-progresso/