sabato, febbraio 12, 2011

Thailandia e Cambogia sono sull'orlo della guerra per un luogo di culto indù vecchio 900 anni.

Non si spara più da qualche giorno, ma non illudiamoci che sia finita qui. Tra Thailandia e Cambogia, come ha detto ieri il primo ministro cambogiano Hun Sen, “ormai è guerra”. Tutto per colpa di un tempio indù vecchio oltre 900 anni e conteso da decenni. Quasi tre anni di scaramucce militari hanno causato almeno 20 morti – ma è diffuso il sospetto che siano anche il quintuplo. Quelli dello scorso fine settimana (3 thailandesi e 5 cambogiani morti) sono però stati gli scontri più violenti, e lo spazio per la diplomazia sembra ridursi sempre più.

Sono tornato a Bangkok ieri sera, dopo alcuni giorni dalla parte thailandese della frontiera. Sono ripartito con un senso di assurdità per questa situazione, e di amarezza nel constatare come i rispettivi nazionalismi e i giochi a fini di politica interna alla fine causino sofferenza – in totale si contano oltre 20 mila evacuati, che ora stanno rientrando nelle loro case - a contadini innocenti da entrambi i lati del confine, che hanno vissuto intorno a quelle terre contese da decenni.

Il Preah Vihear (Khao Phra Wiharn per i thailandesi) è stato assegnato alla Cambogia dall'Onu nel 1962. E allora perché è conteso ancora oggi, direte voi? Innanzitutto per il pasticcio di non aver mai attribuito con certezza 4,6 chilometri quadrati di territorio circostante, con un'entrata ben più agevole dalla parte thailandese che da quella cambogiana. E poi perché i nazionalisti thailandesi possono appellarsi allo scherzetto che gli combinarono i francesi a inizio Novecento, tracciando la frontiera tra il regno di Siam e l'Indocina francese: la linea coincideva con lo spartiacque su quelle colline, salvo allargarsi per inglobare il Preah Vihear dalla parte francese. Il problema, per i thailandesi, è che non dissero niente per oltre quarant'anni.

Dal 2008, quando l'Unesco dichiarò il tempio Patrimonio mondiale dell'umanità, i nazionalisti thailandesi si sono impuntati sulla questione. Parlano di “perdita di territorio nazionale”, tirano fuori mappe di cento anni fa. Ora, dopo gli ultimi scontri, incitano apertamente a invadere la Cambogia, prendersi i templi di Angkor Wat e poi costringere Phnom Penh a cedere in cambio il Preah Vihear. E' fantapolitica, e i nazionalisti in piazza da due settimane davanti alla sede del governo di Bangkok non sono mai più di due migliaia. Ma fanno rumore; e dato che in molti vedono nelle loro proteste del 2008 il “lavoro sporco” che contribuì alla caduta di due governi sgraditi all'establishment militare-monarchico, non vanno sottovalutati. Anche se ora il governo di Abhisit Vejjajiva è quello teoricamente più vicino alle loro posizioni, lo attaccano senza pietà imputandogli di essere debole sulla questione.

Un'analisi sul “perché ora?” richiederebbe un altro pezzo sulla politica interna thailandese. Dietro questo atteggiamento c'è comunque un senso di superiorità e un nazionalismo radicato da decenni, frutto di una propaganda basata su una rivisitazione della storia a vantaggio dell'establishment; e da parte cambogiana, il risentimento di essere trattati come poveri bifolchi, nonché privati della gloria dell'impero Khmer.

I thailandesi – specie l'elite sino-thai di Bangkok - si sentono migliori dei cambogiani, che hanno la pelle più scura, strane credenze animiste mescolate al loro buddismo, e sono molto più indietro economicamente: “Devono aver finito i proiettili”, mi ha detto sghignazzando un autista thailandese alla frontiera commentando sulla calma dopo gli scontri, riferendosi ai soldati cambogiani. Soprattutto, vedono la Cambogia come una ex provincia del regno di Siam (che si estendeva all'incirca sul Laos e la Cambogia di oggi) e ancor prima della mitica “Suvarnabhumi” (“terra d'oro”) - una specie di Eden tropicale mai esistita nei termini in cui la descrivono qui. Così, anche un antico impero indù di architettura tipicamente Khmer – quando i thailandesi per come li intendiamo oggi non erano ancora calati su questa regione dalla Cina – diventa “eredità storica thai” agli occhi dei nazionalisti. E anche se non vanno in piazza, in molti condividono questa mentalità.

Questa arrogante ignoranza infastidisce i cambogiani e i laotiani; e sul tempio, è come se i thailandesi raccontassero a se stessi un'altra verità, senza badare alle decisioni degli organi internazionali. Mentre Phnom Penh protesta all'Onu, il governo di Bangkok sostiene che la crisi si può risolvere bilateralmente: l'atteggiamento – in questa e in altre situazioni dove la posizione ufficiale è ampiamente attaccabile - è sempre della serie “non avete le corrette informazioni, noi thailandesi sì”. Oggi la Thailandia si è anche opposta a una visita al tempio da parte dell'Unesco: “Complicherebbe la situazione”, hanno detto – e probabilmente è vero, ma per loro.

Così, la speranza che le due parti si mettano al tavolo delle trattative al momento è davvero bassa. Sul Preah Vihear ci sono due verità, due confini disegnati in maniera diversa nelle mappe a disposizione dei due contendenti. Anche nel caso la crisi rientri e le armi tacciano, la questione verrà semplicemente messa da parte, non risolta. Un atteggiamento - questo del mettere la polvere sotto il materasso, invece di pulire – comune da queste parti; il problema è che così, la polvere si accumula. Prima o poi torna fuori, ed è ancora peggio.

Link: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=175&ID_articolo=91&ID_sezione=358&sezione=

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