Il problema non è chiaramente solo della Thailandia e dell’Asia, dove tra Cina e India viaggia il maggior numero di veicoli inquinanti al mondo. Ma tra il nord della Thailandia, il Myanmar e il Laos si registra un altro fenomeno sempre più preoccupante: molti contadini, che appartengono in genere ad antiche tribù delle minoranze etniche, praticano da sempre la tecnica del “taglia e brucia”, e mandano in fumo specialmente durante la stagione secca (tra gennaio e maggio) il sottobosco, per “ripulire” il terreno e prepararlo al prossimo raccolto. Le fiamme sprigionate di conseguenza si addensano sui cieli privi di confini e invadono tutti questi tre Paesi, costringendo spesso a chiudere addirittura gli aeroporti e a sconsigliare bambini e anziani di uscire all’aperto, per colpa delle pesanti particelle sospese nell’aria e dannose per i polmoni.
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Immagine satellitare ripresa nel 2007 dei fuochi sprigionati nel Sud Est asiatico dalla ripulitura del sottobosco
A proposito della benzina, invece, c’è un’altra fonte di inquinamento “derivata” da esigenze energetiche che non viene sempre citata dalle statistiche, ma contribuisce in maniera determinante a rendere l’aria irrespirabile in parecchi cieli d’Oriente. Da molti anni ha preso piede l’affare di estrarre carburante dall’olio di palma o da altre piante come la Jatropha. Lo chiamano biodiesel, ma in realtà l’uso della parola “biologico” mal s’addice al disastro ambientale prodotto. Per coltivare questi alberi, infatti, si bruciano spesso le foreste pluviali ben più ricche d’ossigeno, distruggendo il polmone verde dell’Est, soprattutto nell’arcipelago indonesiano. Quando ad andare in fumo sono i boschi del Borneo, delle Sulawesi, di Sumatra, le nubi prodotte si espandono fino in Malesia (a sua volta deforestata per lasciare psoto all’olio di palma), a Singapore, nel sud della Thailandia.
Negli anni ’80 – secondo l’Osservatorio Globale delle Foreste – nell’arcipelago indonesiano bruciava una media di 1 milione di ettari di foreste l’anno, con un aumento della media a 1.7 milioni all’inizio degli anni ‘90. Dal 1996 però si è raggiunto e superato il tetto dei 2 milioni di ettari, così che nell’ultimo mezzo secolo sono andati persi in questa Amazzonia d’Oriente quasi il 50 per cento dei boschi.