Fonte Articolo: http://it.peacereporter.net/articolo/22190/La+chiamavano+riconciliazione
La chiamano "riconciliazione nazionale". Ma quella in atto in Thailandia, dopo la cacciata delle "camicie rosse" da Bangkok, pare più una discesa verso lo stato di polizia: arresti per chi ha espresso opinioni dal palco della protesta, chiusure di tv, siti e giornali favorevoli all'ex premier Thaksin Shinawatra (ora accusato di terrorismo), insulti online contro chi osa uscire dal coro. Tutto in nome della maggiore "informazione" e della "armonia", con una costante ossessione per la sicurezza che già fa intravedere la sempreverde scusa per togliere dal tavolo l'idea di nuove elezioni.
Oltre due mesi di manifestazioni - con gli 88 morti, 1.900 feriti e la coda di violenza finale - hanno alimentato il risentimento reciproco nel Paese. I "rossi", in gran parte provenienti dalle campagne o dalle aree più popolari della capitale, hanno i loro martiri e un governo/esercito da odiare ancora di più; la classe medio-alta di Bangkok passa davanti all'enorme centro commerciale Central World, distrutto dalle fiamme, e vede confermata la sua idea che i "rossi" siano bifolchi rivoluzionari e violenti, altro che pacifici come hanno sempre ripetuto. Le tv nazionali, controllate dall'establishment monarchico-militare, non perdono occasione per rimarcare la parola "terroristi armati", pronunciata dalle autorità.
E' fuori di dubbio che parte dei manifestanti fossero armati. Il problema, come è chiaro a qualunque reporter abbia seguito la crisi thailandese dal campo, è che si trattava di una esigua minoranza. Gli "uomini in nero" mascherati forse non hanno mai superato il centinaio; la maggioranza delle 88 vittime (tra cui 77 dimostranti) - chi scrive è stato testimone diretto di alcune uccisioni - erano persone disarmate, o al massimo con in mano un fuoco di artificio a 150 metri di distanza dalle linee dei militari. Ciò non toglie che i riferimenti gandhiani di alcuni leader dei "rossi" fossero totalmente fuori posto, se non in mala fede.
Forte delle immagini - sempre le stesse - riproposte dalle tv, che mostrano una pistola qua, un rudimentale razzo là, il governo di Abhisit Vejjajiva sta però applicando la linea dura senza badare troppo alle distinzioni. Il coprifuoco notturno a Bangkok, per quanto gradualmente ridotto nella durata, è durato dieci notti. Oltre 500 persone sono state arrestate durante questi periodi. Più di 1.100 siti internet sono stati censurati, quattro riviste filo-Thaksin sono state chiuse per ordine dei militari. Quattro governatori delle province dove i "rossi" hanno appiccato il fuoco a palazzi governativi sono stati rimossi. Un professore dell'università Thammasat, che aveva parlato sul palco dei manifestanti, è ancora in carcere. I leader delle "camicie rosse" rimangono in detenzione. I reduci dell'accampamento di Bangkok, tornati nelle campagne, ora hanno paura a farsi fotografare.
Il movimento antigovernativo si lamentava da tempo del "doppio standard" nel sistema politico-giudiziario thailandese, che chiude un occhio per i potenti dalla parte dell'establishment ma è inflessibile con chiunque abbia legami o simpatie thaksiniane. Ora ha materiale fresco per continuare: nessuno è finito mai in carcere per le proteste delle "camicie gialle" nell'autunno 2008 - tre mesi di occupazione della sede del governo culminati con la presa dell'aeroporto di Bangkok, da parte di un movimento che aveva anch'esso le sue guardie armate. Kasit Pironya, un ex thaksiniano, andava ad arringare la folla dal palco dello scalo Suvarnabhumi: ora è ministro degli Esteri.
Spazio per una "riconciliazione" non si vede, se il processo sarà condotto con questi criteri. I vaghi impegni di giustizia sociale e riforme politiche partecipative, anche se dovessero tramutarsi in fatti, rimarranno probabilmente insufficienti agli occhi della parte del Paese che vuole il ritorno di Thaksin dall'autoesilio. La richiesta base rimane quella di tornare a elezioni; ma Abhisit, al potere grazie a un ribaltone parlamentare dopo lo scioglimento di due governi filo Thaksin, ora non le menziona più e sembra voler tirare dritto fino al gennaio 2012, quando scade il suo mandato. Con una situazione in cui il premier o altri politici della coalizione non possono recarsi nelle aree "rosse" pena la loro incolumità, e con il precedente del rinvio a data da destinarsi a causa della precaria sicurezza, il tavolo è già pronto per un altro eventuale spostamento del voto tra un anno e mezzo.
Nel frattempo, la parte nazionalista-conservatrice-monarchica del Paese sta reagendo con una campagna d'odio senza precedenti, simile al vitriolo che molti cinesi dispensano quando qualcuno tocca l'argomento del Tibet. La Cnn e la Bbc - accusate di intrattenere simpatie "rosse" e financo di essere al soldo di Thaksin - sono diventate da subito un capro espiatorio: lunedì 24 maggio, primo giorno di "normalità" a Bangkok, l'università Thammasat aveva già organizzato un dibattito sulla copertura della Cnn. Gli stranieri, anche quelli residenti qua da un decennio e appassionati della politica nazionale, vengono accusati di "non capire la Thailandia" anche per il solo proporre un dibattito più franco tra gli stessi thailandesi, senza suggerire soluzioni.
E le voci contrarie vengono attaccate senza pietà: come è successo a una ragazza 18enne, di simpatie socialiste, che ha espresso commenti poco lusinghieri sulla famiglia reale e il sistema di governo thailandese. Il gruppo su Facebook nato contro di lei conteneva minacce di morte e insulti di ogni tipo; alla giovane, ha scritto il sito Prachathai (censurato), è stata già negata l'iscrizione a un'università. Grazie ai report di molti utenti, il gruppo è stato poi messo al bando. Ma il livore resta, e per il futuro del Paese non può che preoccupare.