domenica, maggio 15, 2011

Diciottesimo summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN)

di Michele Paris


Lo scorso fine settimana a Jakarta, in Indonesia, si è tenuto il diciottesimo summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN). Sul tavolo c’erano parecchi temi e delicate questioni che stanno causando profonde divergenze tra i dieci paesi membri, a cominciare dalla disputa di frontiera tra Cambogia e Thailandia, sfociata recentemente nell’ennesimo conflitto a fuoco. Con la rivalità crescente tra Cina e Stati Uniti sullo sfondo, il vertice si è però concluso senza risultati concreti di rilievo, rimandando indefinitamente qualsiasi discorso serio sulla risoluzione dei conflitti che attraversano quest’area cruciale del pianeta.

La due giorni indonesiana si è conclusa con l’impegno da parte del segretario generale, il tailandese Surin Pitsuwan, e dei leader presenti, di lavorare per la creazione di una comunità economica tra i paesi membri entro il 2015. La dichiarazione finale ha compreso anche generiche iniziative per contrastare il traffico di esseri umani e la promessa di creare un “Istituto per la Pace e la Riconciliazione” e di implementare un piano di “connettività” per sviluppare le infrastrutture e rafforzare le istituzioni nella regione.

Sullo scontro in corso tra Thailandia e Cambogia, la mediazione indonesiana ha portato ad un faccia a faccia tra i rispettivi primi ministri, Abhisit Vejjajiva e Hun Sen, i quali non hanno tuttavia trovato un accordo per la risoluzione della crisi. La diatriba tra i due paesi è scaturita attorno alla contesa di un tempio indù situato in una zona di confine, che ha già provocato svariati scontri a fuoco nel recente passato. I ministri degli Esteri dei due paesi sembravano successivamente aver trovato un punto d’incontro su un cessate il fuoco e l’invio di osservatori internazionali, ma a tutt’oggi non si intravede ancora una via d’uscita concordata.

Le tensioni tra i due paesi confinanti pare essere legata in particolare ai problemi interni della Thailandia, alle prese da tempo con una complicata crisi del sistema politico che difficilmente verrà risolta dalle elezioni da poco annunciate per il prossimo 3 luglio. Sul conflitto tra Cambogia e Thailandia influisce però anche l’antagonismo tra Cina, legata al governo di Phnom Penh, e Stati Uniti, tradizionalmente alleati di Bangkok.

Alla consolidata influenza cinese nel sud-est asiatico si è aggiunta da poco la rinnovata intraprendenza americana in un’area strategicamente delicata per Washington e da dove transitano importanti rotte commerciali. Il rilancio degli USA ha coinciso sostanzialmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama. Con quest’obiettivo, il presidente nel novembre 2010 aveva creato appositamente la carica di ambasciatore presso l’ASEAN, ufficio in precedenza detenuto solo dal Giappone. A marzo di quest’anno, l’incarico è andato a David Lee Carden, noto avvocato di molte banche di Wall Street e uno dei principali finanziatori della campagna elettorale dello stesso Obama.

La lunga ombra proiettata dagli Stati Uniti sull’ASEAN in funzione anti-cinese (assieme ad un maggiore impegno dell’Indonesia, alla ricerca di un rinnovato ruolo di potenza regionale) ha paradossalmente contribuito all’incapacità dell’associazione di risolvere le problematiche che si trova a dover fronteggiare. Un intervento quello di Pechino e Washington che ha finito così per dividere i membri dell’organizzazione dei paesi dell’Asia sud-orientale, indecisi tra l’apertura totale alle relazioni commerciali con la Cina e la conservazione, o il consolidamento, della protezione militari garantita dagli USA.

Oltre al conflitto tra Thailandia e Cambogia, queste divisioni si sono potute osservare su altre questioni, come quella relativa alla possibile assegnazione della presidenza a rotazione dell’ASEAN al Myanmar nel 2014. Il regime militare birmano ha chiesto, infatti, di guidare il gruppo dei dieci paesi al posto del Laos tra tre anni. La presidenza sarebbe dovuta toccare al Myanmar già nel 2005, quando gli venne impedito a causa delle persistenti carenze sul fronte della democrazia e dei diritti umani. Dopo le elezioni dello scorso anno, che hanno sancito un trasferimento di facciata dei poteri dai militari a un governo civile, e la liberazione dell’icona dell’opposizione, Aung San Suu Kyi, il Myanmar ha rivendicato il proprio turno per la presidenza, nel tentativo di riscattare la propria immagine di fronte al mondo.

Mentre paesi come Indonesia e Filippine, alleati degli Stati Uniti, si sono detti contrari all’assunzione della presidenza da parte della ex Birmania nel 2014, il Laos ha manifestato la disponibilità a cedere il proprio turno al vicino occidentale. Il segretario generale ha a sua volta appoggiato la richiesta del Myanmar ma, senza poter raggiungere alcun consenso, l’ASEAN ha alla fine rinunciato ad assumere una posizione chiara sulla questione.

Sulla mancata decisione hanno pesato appunto gli stretti legami economici e militari della Cina con il Myanmar - dove Pechino sta investendo massicciamente in rotte di transito alternative allo Stretto di Malacca, pattugliato dalla Marina statunitense, per le proprie forniture energetiche - e le pressioni degli americani che ufficialmente condannano la situazione dei diritti umani in questo paese, pur intrattenendo rapporti più che cordiali con dittature e regimi assoluti in mezzo mondo.

Analoga incertezza ha segnato anche la discussione attorno ad altre questioni in agenda. Ad esempio, l’ammissione all’ASEAN di Timor Est è stata rimandata, secondo quanto riferito dalla stampa tailandese, a causa della crescente influenza cinese sul piccolo paese separatosi dall’Indonesia nel 2002.

Le dispute territoriali tra vari paesi nel Mare Cinese Meridionale sono poi ancora più emblematiche delle rivalità tra Pechino e gli Stati Uniti, soprattutto dopo che il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, nel luglio dell’anno scorso affermò il ruolo di mediatore di Washington all’interno di negoziazioni multilaterali. Una presa di posizione, questa, che si è scontrata con la volontà di Pechino di risolvere invece questi conflitti in maniera bilaterale. Durante il recente summit, così, l’ASEAN non ha potuto raggiungere alcun accordo tra i membri che rivendicano le varie isole nel Mare Cinese Meridionale.

Accese rivalità hanno impedito infine anche passi avanti sulla complessa questione della suddivisione delle acque del fiume Mekong, attorno al quale stanno nascendo dighe e altre costosissime infrastrutture che mettono in competizione improvvisati consorzi costituiti dai vari paesi dell’ASEAN e dalla Cina.

Se sul fronte dei rapporti interni ai suoi membri il vertice dell’ASEAN è risultato deludente, a Jakarta hanno fatto al contrario ottimi affari le aziende americane ed europee. Oltre alla corsia preferenziale concessa ai rappresentanti del business a stelle e strisce, prima dell’apertura dei lavori è andato in scena anche il primo “Business Summit” tra ASEAN e UE. L’incontro ha fornito l’occasione ai paesi europei e alle compagnie private di trattare direttamente con i membri dei governi di questi paesi asiatici, con i quali hanno gettato le basi per accordi commerciali e lucrosi contratti di fornitura.

Link: http://www.altrenotizie.org/esteri/4023-asean-il-vertice-che-non-decide.html
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