venerdì, luglio 15, 2011

L'elite thailandese non si rassegna alla presa di potere dei poveri...

L'elite thailandese considera inferiore il popolo delle campagne, e non si capacita della vittoria elettorale del blocco che lo rappresenta

Era inevitabile: la sequenza del film “La caduta” in cui il magistrale Hitler di Bruno Ganz si lancia in una sfuriata - già utilizzato in varie parodie - è ora stato reinterpretato in chiave thailandese, a simboleggiare l’ipotetica reazione dell’esercito e dell’establishment in generale alla notizia del trionfo di Yingluck Shinawatra nelle elezioni del 3 luglio.

Come tutte le prese in giro, esagera e generalizza. Ma coglie nel segno l’angoscia delle classi medio-alte thailandesi: la loro opposizione feroce a Thaksin Shinawatra, l’ex premier deposto da un colpo di stato nel 2006, non deriva solo dalle accuse di essere un diavolo corruttore che vuole segretamente instaurare una repubblica. Non è neanche il timore - come parodizzato nel video - di perdere i privilegi acquisiti. E’ più un misto di orgoglio, mitizzate idee sulla “diversità” della Thailandia e soprattutto una viscerale reazione di fastidio nel vedere che le spesso ridicolizzate classi rurali del nord e del nord-est fanno ora valere il loro peso demografico votando in massa il candidato disprezzato dall’elite.

Le attuali divisioni politiche in Thailandia sono il prodotto di diversi fattori e non mancano di contraddizioni: una su tutte, quella che il popolo delle “camicie rosse” riesca a identificarsi con uno degli uomini più ricchi in Thailandia. Trattare tutte le sfumature richiederebbe ben più di un articolo su un blog. Prendendo spunto dal video-parodia, qui mi concentrerò solo sulle dimensioni parallele in cui vivono l’elite della capitale e il popolino in particolare delle campagne, conscio che il rischio delle generalizzazioni si nasconde dietro ogni affermazione.

Politicamente, la Thailandia è estremamente centralizzata: non ci sono regioni, i governatori provinciali sono nominati da Bangkok, un re dallo status semi-divino ufficialmente al di sopra della politica assicura il carattere “virtuoso” del sistema di governo. La democrazia è sempre stata fragile, con governi civili alternati a colpi di stato (18 dal 1932) di forze armate potenti e burocratizzate, una popolazione tradizionalmente apatica in politica e un’endemica pratica di compravendita di voti specie nelle province. In un Paese dalle stratificazioni sociali radicate, con una lingua che rispecchia l’importanza delle gerarchie, la politica è sempre rimasta in mano all’elite della capitale.

Finché Thaksin, uno squalo degli affari cresciuto nel nord del Paese da una famiglia fuori dalla tradizionale elite e arricchitosi enormemente negli anni Novanta, è sceso in politica capendo prima di tutti che l’enorme bacino elettorale del popoloso nord del Paese era un tesoro mai sfruttato. Forte di una maggioranza schiacciante, nei suoi cinque anni al governo ha introdotto misure come un sistema sanitario quasi gratuito e un programma di prestiti ai villaggi, che gli hanno conquistato l’amore delle classi rurali che l’elite di Bangkok aveva mai considerato. Misure benefiche per alcuni, populistiche per altri: sono spesso schieramenti senza scala di grigi. L’effetto, in un Paese in cui la modernità ha contribuito a scardinare la tradizionale struttura sociale, è stato quello di rendere un’enorme fetta di popolazione consapevole di cosa vuole o no dalla politica: non è un caso che da dieci anni il blocco filo-Thaksin abbia stravinto ogni elezione.

Il problema è il disprezzo della Bangkok-bene verso i contadini dell’Isaan (il nord-est rurale): sempre generalizzando, non dissimile dalla mentalità che un alto borghese di Torino o Milano poteva avere verso i “terroni” negli anni Sessanta. Gli stereotipi sul loro essere gretti, ignoranti, “bufali” di poco intelletto si incontrano spesso. Giornali e tv, in mano all’elite, non si preoccupano di andare a sentire le loro voci. L’anno scorso, quando le “camicie rosse” pro-Thaksin arrivarono a decine di migliaia dalle province, il Bangkok Post si tradì con una didascalia in cui parlava di “orde rosse”. I roghi appiccati nel maggio 2010 a una trentina di edifici - tra cui il tempio dello shopping Central World - durante la ritirata di fronte all’avanzata dell’esercito, per il Bangkokiano medio, hanno ovviamente contribuito a rendere ancora più negativa l’immagine dei “barbari” calati sulla capitale.

Recentemente, ho avuto modo di assistere a una scena emblematica. Tali sentimenti sono stati espressi in modo netto - e di fronte a una trentina di persone, in un’animata discussione di politica a una cena - da un aristocratico thailandese che ha trascorso gran parte della sua vita in Europa. Ma la conoscenza del mondo e la sua innegabile cultura non gli hanno impedito di uscirsene con un “Non è possibile che il voto di una persona istruita conti come quello di uno che non ha studiato”, dopo aver girato attorno al problema parlando del “populismo” di Thaksin e del problema della compravendita dei voti (che evidentemente non era un problema quando, ben più diffusa, fissava solo il potere negoziale dei vari partiti in un sistema che non metteva a rischio l’ordine costituito). La convinzione e al tempo stesso la frustrazione con cui quel signore ha esposto il suo pensiero sono la perfetta immagine di un’elite che non si capacita di quanto il Paese le sia sfuggito di mano.

Il fatto è che non si tratta di un pensiero isolato. L’idea che i poveri dell’Isaan (e quindi gli elettori di Thaksin) non abbiano le informazioni necessarie per votare e si facciano abbindolare da qualche banconota è profondamente radicata tra l’alta borghesia della capitale. Le “camicie gialle” che nel 2008 occuparono i due aeroporti di Bangkok proponevano apertamente una “nuova politica” con un Parlamento nominato dall’alto per il 70 per cento: alle elezioni hanno fatto campagna intorno al concetto “vota no”, con diffusissimi poster in cui i deputati venivano raffigurati come animali, tutti con connotazioni negative.

Dopo la frattura creatasi tra le “camicie gialle” e i Democratici dell’ex premier Abhisit Vejjajiva, che dopotutto contribuirono a portare al potere con quelle proteste di tre anni fa, tale campagna rifletteva oggi più il crescente qualunquismo dei “gialli”, sempre più ridotti a estremistica frangia con un seguito in calo. Ma il concetto resta. E molti degli elettori di Abhisit nella capitale magari non hanno il coraggio di esporre pubblicamente le loro idee sul suffragio universale: ma sotto sotto, non avrebbero niente da ridire se il loro voto contasse come quello di cinque contadini. Ecco allora che non possono che contare sull’appoggio dei militari, o di un sistema giudiziario indipendente solo sulla carta, per rovesciare il risultato del voto: ed è lì che la satira sull’ipotetico Hitler thailandese fa centro.

Link: http://www.lastampa.it/
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