Il giorno dopo le violenze che hanno causato 21 morti e oltre 800 feriti, il Paese si interroga sulle responsabilità. Che sono condivise
Il giorno dopo, la Thailandia si interroga: chi ha colpa dei 21 morti e 858 feriti degli scontri di sabato 10 aprile? Le peggiori violenze politiche dal 1992 a oggi hanno scioccato il Paese, e radicalizzato ancora di più gli animi. Le "camicie rosse" accusano il governo di aver ordinato la repressione, il primo ministro Abhisit Vejjajiva si difende sostenendo che i soldati abbiano sparato solo proiettili di gomma per autodifesa, contro manifestanti armati di fucili e lanciagranate. La verità, come emerge da testimonianze oculari - compreso chi scrive - e i tanti video pubblicati su Internet, è che la responsabilità è condivisa. Anche per il modo in cui si è arrivati a una giornata di guerriglia urbana.
Sabato era iniziato come un giorno tranquillo, seppur nella situazione che da un mese a Bangkok è "normale": ossia con migliaia di "rossi" - sostenitori dell'ex premier Thaksin Shinawatra - padroni della zona dello shopping e della parte storica della capitale. Dalla tarda mattinata, però, manipoli di dimostranti hanno circondato le postazioni dell'esercito e della polizia in diversi punti vicino ai palazzi del potere. Le forze di sicurezza li hanno dispersi sparando gas lacrimogeni e proiettili di gomma; centinaia di persone sono rimaste ferite.
Sulla scia di quegli scontri multipli, l'atmosfera è diventata bollente, con sempre più "camicie rosse" che si spostavano verso il ponte di Phan Fah, uno dei due centri della protesta. All'entrata di Khao San Road, la mecca dei backpacker, si è scatenata una sparatoria che ha provocato i primi morti. Sempre più in collera, la folla è quindi confluita nella piazza del Democracy Monument, 200 metri più in là: qui, poche decine di soldati difendevano l'accesso a una via che porta a nord, verso la zona che era controllata dai militari.
Per qualche decina di minuti la scena era surreale: gli altoparlanti montati sui blindati diffondevano vecchie musiche thailandesi che esortavano all'unità, militari e manifestanti si guardavano immobili, mentre l'aria era ancora impestata di lacrimogeni. Poi però sono arrivati due camion di rinforzi dei "rossi", con in cima dei capipopolo che arringavano la folla. Da lì a poco è partito un lancio di bottiglie, bastoni, sedie contro i militari. Dall'altra parte, i soldati hanno risposto con i proiettili di gomma. Ma quando tra di loro è piovuta una granata, e subito dopo un'altra, si è scatenato il caos: battendo in ritirata, con i manifestanti che sfondavano la barricata, dai soldati sono partiti anche proiettili veri. In aria, ma non solo.
Le versioni di entrambe le parti sono incomplete. E' probabilmente vero che la maggioranza dei soldati abbiano seguito le regole di ingaggio, e la gran parte dei manifestanti erano armati di bastoni e spranghe. Ma ci sono video che mostrano sia soldati sia loschi manifestanti - definiti "terroristi infiltrati" oggi dal premier Abhisit - sparare ad altezza d'uomo: i primi risultati delle autopsie, annunciati lunedì pomeriggio, rivelano che 9 camicie rosse sono state centrate al petto e alla testa da colpi sparati da "fucile ad alta potenza". Nell'immagine forse più scioccante diffusa su Internet, si vede un giovane "rosso" assistere con una bandiera in mano alla sparatoria in corso a pochi metri e poi crollare al suolo col cranio sfondato, da un colpo che a giudicare dalle immagini pare sparato dall'alto; proprio dal punto in cui i manifestanti accusano l'esercito di aver piazzato cecchini.
Anche sul come si è arrivati alle armi hanno tutti la loro parte di colpa. Il governo di Abhisit è nato dopo un colpo di stato che ha deposto Thaksin, due governi a lui fedeli sciolti dalla magistratura, tre mesi di manifestazioni delle "camicie gialle" di simpatie monarchico-militari e infine un ribaltone parlamentare; si può capire la rabbia delle camicie rosse quando parlano di "golpe giudiziario" o di "Abhisit fantoccio dei militari". Anche se la sostanza dà loro ragione, nella forma però l'attuale governo è nato grazie al cambio di sponda di decine di parlamentari, in nome della "riconciliazione nazionale" e per impedire un ritorno di Thaksin - condannato in contumacia per corruzione e con altri processi legali pendenti - dall'autoesilio. Sui metodi si può discutere, e in Thailandia molti danno per scontato che soldi sottobanco siano passati. Ma non è capitato anche in Italia?
E' a partire da queste due opposte visioni che nascono le recriminazioni reciproche: i "rossi" che si sentono legittimati a paralizzare la capitale finché non si va a nuove elezioni, i "gialli" - che vedono Thaksin come la fonte di tutti i mali del Paese - credono che tutte le persone ancora in strada siano pagate per manifestare. In parte è vero, ma la devozione verso Thaksin evidente in molti manifestanti è sicuramente più radicata e deriva dalle politiche favorevoli alle aree rurali e alle classi medio-basse adottate dal miliardario magnate.
Abhisit - probabilmente sincero quando sostiene di aver fatto di tutto per evitare morti civili - si trova nella scomoda posizione di essere considerato un assassino da alcuni, un agnello da altri. Per i leader delle camicie rosse, ora il premier "ha le mani sporche di sangue", e con gli assassini non si tratta. Molti thailandesi che votano Abhisit lo criticano invece per aver concesso troppo ai manifestanti: la sua proposta di sciogliere il Parlamento, ma solo tra nove mesi, era stata rifiutata dai "rossi". Escludendo chi vorrebbe una repressione manu militari, è evidente come nelle ultime settimane le forze armate abbiano dimostrato diverse lacune strategiche e mancanza di unione al loro interno, nel fronteggiare le proteste.
Quello che inquieta, anche a lungo termine, è quanto accesi siano ormai gli animi, con "rossi" e "gialli" - entrambi dotati di una tv che trasmette tutti i discorsi dei leader, scivolando spesso nella propaganda - che credono ciecamente a due verità incompatibili. Le parole sono sempre esasperate, i gesti - come il versamento del "sangue del popolo" da parte delle camicie rosse, prima ancora che venisse sparato un colpo - anche. Da un lato predicano la non violenza, dall'altro scatenano arringhe sempre più feroci. E a forza di ripetere gli stessi concetti dal palco, va a finire come sabato: con ragazzi, ragazze, vecchiette che vanno al fronte di una guerriglia urbana ripetendo gli stessi slogan, nella loro "lotta per la democrazia contro la dittatura". Ma con tutto il marcio che ci può essere, la Thailandia non è la Birmania.
Alessandro Ursic