BANGKOK – C’è una guerra di colori nella Thailandia divisa tra maglie rosse, gialle, rosa e multicolori e c’è anche una guerra di canali televisivi. L’informazione, specialmente quella televisiva, è parte essenziale degli ordini di battaglia. Sei delle sette reti nazionali sono di proprietà dello stato o della leadership militare. Anche l’ex primo ministro Thaksin Shinawatra aveva creato la propria rete televisiva appena estromesso dal potere politico, trovandosi improvvisamente privo dell’arma essenziale per guidare le masse, divenuta ancor più importante se doveva farlo col telecomando dall’esilio. La sua PTV (People’s Television), il piccolo grande fratello attraverso il quale Thaksin incitava i suoi supporters a “combattere per la democrazia”, è diventata poi lo schermo ufficiale delle Camicie Rosse, e per questo è stata chiusa dal Governo.
Si deve dare atto ai reporter thailandesi di aver reso onore al proprio mestiere rischiando la vita per le strade di Bangkok. Tuttavia le reti televisive hanno riportato gli eventi tumultuosi dello scorso maggio secondo le proprie interpretazioni o le linee dettate dai piani alti. Alcune mandavano perfino in onda le soap-opera, come da usuale palinsesto, apparentemente non curandosi delle battaglie in corso. I provvedimenti “per la sicurezza” messi in atto dal governo hanno fatto il resto, fino ad arrivare al palese, totale controllo dell’informazione da parte dei militari. A livelli tali che si potrebbe senza tema parlare di stato di polizia, seppur temporaneo.
La guerra dell’informazione ha persino oltrepassato i confini nazionali: in Thailandia è nato un risentimento verso i grandi media internazionali, CNN e BBC prime tra tutti, perché colpevoli secondo molti di aver riportato i sanguinosi avvenimenti di Bangkok in modo non neutrale e poco fedele alla realtà, tendendo a “spettacolarizzare” ed esagerare la criticità, spesso ponendo al centro della notizia il giornalista in zona di guerra più che il fatto. Se da una parte ciò è vero – è sempre più diffuso oggi fare news-spettacolo in modo da catturare maggiore audience -, è vero dall’altra parte che l’unico modo in cui il grande pubblico thailandese ha potuto apprendere quello che stava succedendo è stato attraverso i canali internazionali. La CNN, la BBC, Al Jazeera e Channel News Asia erano in quelle ore le uniche reti possibili per “vedere”, grazie alle ininterrotte immagini live provenienti da Bangkok. Nel momento in cui il governo annunciò (il 19 maggio) che tutte le tv avrebbero mandato le stesse trasmissioni “per informare meglio la popolazione”, sostituendo i tg e le soap con continui proclami e con brevi talk-show presenziati da alti comandi delle forze dell’ordine, non c’era altro da fare che cambiare canale. Sembrava quasi che la crisi politica in atto fosse più importante per la comunità internazionale che non per la società thailandese. Era chiaro l’intento di controllare la società attraverso l’informazione per arginare il pericolo di un più vasto confronto civile.
La società thailandese, e parte della stampa per fortuna, oggi si interroga come possa convivere informazione libera e stato di emergenza, nuovamente esteso per ulteriori tre mesi. Se lo fa è anche grazie al risentimento verso BBC e CNN. Il dibattito non è di poco conto neanche dal punto di vista economico: forti discussioni girano intorno alla grande società di trasmissioni satellitari venduta in passato da Thaksin a Singapore, la ThaiCom, e che guarda caso solo ora il governo di Abhisit cerca di ricomprare per ragioni di “sicurezza nazionale”, dice.
Resta ancora fuori del dibattito però una parte molto importante: un grande ostacolo all’informazione libera, alla libertà di parola e di opinione, è posto dal fatto che l’autorità reale non può essere oggetto di alcuna discussione. Questo crea grandi aree buie nel dibattito politico e sociale del paese. I giornalisti preferiscono non parlare affatto del re e della famiglia reale se non per riportare gli eventi ufficiali della casa reale e, quando lo fanno, sempre e comunque per ribadire il rispetto e la devozione che si deve all’istituzione monarchica, ritenuta paradossalmente garante della democrazia. Parlare del re di fronte alla stampa può essere di volta in volta uno strumento per incolpare l’avversario, un’arma politica per ottenere legittimazione o una scusa a cui appellarsi per il bene del paese. (ARo)
Fonte: http://orienti.wordpress.com/2010/07/07/thailandia-la-guerra-dellinformazione/