Il mese scorso, le strade di Bangkok sono state trasformate, da consueto ingorgo di traffico, in una combinazione di protesta politica, fiera di strada, e campeggio di massa. Decine di migliaia di manifestanti, principalmente dal nord e nord-est della Thailandia, vestiti di rosso, il colore del populista deposto ex primo ministro Thaksin Shinawatra, si sono intrufolati nella capitale. Hanno bloccato gli incroci principali, paralizzato i quartieri commerciali, assediato il Parlamento.
Anche se in un primo momento la protesta è andata avanti tranquilla, e se, curiosamente, i manifestanti ha gettato litri del loro sangue contro gli uffici del primo ministro, in questi ultimi giorni la tensione è montata. Nuovamente i manifestanti hanno sfidato la capacità delle truppe dell’esercito a mantenere l’ ordine. Pochi giorni dopo il primo ministro Abhisit Vejjajiva dichiarava lo stato di emergenza. Durissimi scontri nel weekend hanno provocato almeno venti morti e centinaia di feriti, sia tra i manifestanti che tra le forze di sicurezza, i quali si sarebbero sparati proiettili a vicenda.
Le proteste coronano cinque anni di pressoché costante subbuglio politico che hanno trascinato nell’abisso una democrazia a suo tempo prospera, lasciando la politica e l’economia in uno stallo debilitante. Nel quarto trimestre del 2009, l’economia della Thailandia è crollata di oltre il 6 per cento, e molte prenotazioni negli hotel a Bangkok e altri luoghi turistici sono diminuiti di oltre la metà. Il turismo è uno dei maggiori fornitori di valuta estera, ed è difficile convincere la gente a visitare il paese quando i manifestanti bloccano le strade e lanciano granate in città.
L’ex Primo Ministro Thaksin rimane una figura potente, anche se in esilio, tuttavia il movimento dei rossi è cresciuto molto anche in sua assenza, fino ad abbracciare più ampi ideali sociali.
Per certi versi queste manifestazioni sono semplicemente le immagini speculari delle proteste passate. Nel 2006 e nel 2008, i ricchi manifestavano indossando magliette gialle (il colore della monarchia). Chiedevano la rimozione di Thaksin e, successivamente, degli altri primi ministri filo-Thaksin. Le proteste dei gialli si dimostrarono estremamente efficaci. Sull’onda delle manifestazioni dei gialli del 2006, l’esercito intervenne con un golpe e rimosse Thaksin.
Successivamente, nel 2008, la magistratura, alleata della monarchia conservatrice, squalificò i ministri pro-Thaksin, permettendo ad Abhisit, un pupillo della borghesia urbana della capitale, di prendere il potere senza nemmeno dover vincere le elezioni.
Divisioni sociali e regionali
Gran parte dei media hanno rappresentato lo scontro rossi-gialli come una pura e semplice battaglia di classe. I rossi sono i poveri delle aree rurali, che costituiscono la maggioranza dei thailandesi e hanno beneficiato della generosità populista di Thaksin, mentre i gialli sono le élite privilegiate di Bangkok, compresi la monarchia, l’esercito, le grandi imprese, e la magistratura. I media d’ élite di Bangkok, come il quotidiano The Nation, ritraggono i manifestanti rossi, per lo più non violenti, come orde rurali dedite al saccheggio della capitale.
Certo, c’è qualche verità in questa frattura. Tuttavia il ritratto ricchi-versus-poveri è troppo semplicistico, come riduttiva è l’idea che le magliette rosse stiano dimostrando solo per far tornare Thaksin. Molte camicie rosse non sono povere. Al loro arrivo nella capitale, sono state appoggiate da tanti cittadini della classe media e medio-bassa di Bangkok, che infatti hanno indossato il rosso in loro sostegno. La stampa di Bangkok afferma che i rossi sono finanziati principalmente da Thaksin, in realtà hanno sviluppato le proprie reti sociali e le proprie fonti di finanziamento, che li rende un movimento con gambe solide.
Oltre che per la semplice divisione di classe, le proteste Thai sono il risultato di diverse fratture importanti che attraversano la società. In un certo senso, la battaglia è una battaglia tra élite.
Thaksin, miliardario delle telecomunicazioni, simboleggia i nuovi ricchi della Thailandia, che hanno sviluppato un rapporto antagonista con la tradizionale casta al potere, la quale tende a guardare dall’alto in basso i nuovi ricchi come Thaksin e i suoi più stretti collaboratori. La lotta incarna anche una divisione regionale, tra Bangkok e la Thailandia centrale, da un lato, e il nord e nord-est, storicamente abitato da minoranze nazionali e culture diverse, dall’altro. Inoltre le magliette rosse non rappresentano solo i poveri, ma i Thailandesi che si sentono esclusi: esclusi dai benefici della globalizzazione, che ha aggravato le disparità di reddito e sociali della Thailandia. Esclusi dal processo politico decisionale, che si concentra morbosamente a Bangkok. Esclusi dai centri tradizionali di potere: il potere giudiziario, l’esercito, i funzionari pubblici, la monarchia, i quali tendono ad essere molto conservatori e nepotistici.
Il problema della Monarchia
Dietro a tutto questo dramma grava una grande paura. Per sei decenni, il riverito re Bhumibol Adulyadej, il più longevo monarca regnante del mondo, ha intrapreso azioni ben distanti da quelle tipiche di un monarca costituzionale, sostenendo azioni di forza (colpi di stato) in occasione di ogni crisi politica pur di ristabilire l’ordine. Ora l’ottantaduenne re è malato e ha appena lasciato l’ospedale dopo mesi di malattia. Suo figlio, il principe ereditario, è conosciuto come un testa calda arrogante, ed è ampiamente disprezzato dai thailandesi. Durante il regno di Bhumibol mai il regime ha accettato di adottare meccanismi democratici, né un’effettiva divisione dei poteri. In mancanza di queste istituzioni, quasi tutti i thailandesi temono che ove il “Padre nostro”, come chiamano il re, esca di scena, il paese andrà fuori controllo.
Ciò che serve, allora, è semplice e difficile. La Thailandia abbisogna di concessioni politiche, di un maggiore federalismo, e di un dibattito serio e aperto sul futuro della monarchia. Il re ha tentato di incoraggiare questa discussione, ma finora senza successo. Rigide leggi sulla lesa maestà, difese dai monarchici di Bangkok, considerano un crimine anche solo discutere apertamente il futuro della monarchia. Con l’ invecchiamento del re, i realisti hanno adottato strette restrizioni delle libertà, come il blocco di almeno un centinaio di siti che hanno postato materiale relativo alla monarchia e, recentemente, arrestato il direttore di una delle più autorevoli pubblicazioni online tailandesi per non aver eliminato dal sito web i commenti critici del re.
La Thailandia ha anche bisogno di svolgere nuove elezioni (che il primo ministro Vejjajiva sembra restio a convocare). Ha bisogno che tutte le parti, compresi i militari, rispettino i risultati, anche ove trionfi un partito pro-Thaksin. La casta dirigente dovrà abituarsi all’ idea di perdere il potere.
Allo stesso tempo, i rossi, anzitutto la classe operaia, dovranno rendersi conto che non possono semplicemente calpestare i privilegi di lunga data dell’élite e della borghesia, correndo il rischio di infiammare nuovamente il sentimento di Bangkok.
Questo compromesso non è impossibile. Altri leader populisti in tutto il mondo, come Lula da Silva in Brasile, hanno saputo moderarsi, e prosperano come leader con un’ampia base popolare. Uno sbocco alla brasiliana è possibile anche in Thailandia. Certo, se la protesta si trascina, l’avvento di un arbitro neutrale appare sempre meno probabile. Viste le violenze di questo fine settimana rischia di prevalere nello Stato maggiore dell’esercito l’uso della forza contro i manifestanti, o addirittura un nuovo colpo di stato..
Per un nuovo approccio degli USA
Per gli Stati Uniti i disordini in Thailandia potrebbero avere gravi conseguenze. La Thailandia è un alleato decisivo, un partner importante nella guerra al terrore, un partner commerciale chiave e un leader dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico. I colpi portati alla democrazia thailandese hanno messo Washington in una posizione difficile, ma gli USA non devono ripetere gli errori del 2006, quando, in sostanza, hanno sostenuto il rovesciamento di Thaksin da parte dei militari, instaurando poi un rapporto cordiale con il governo messo su dall’esercito. Questa decisione poco saggia mise in cattiva luce gli Stati Uniti agli occhi della maggior parte dei thailandesi, quelli che avevano votato per Thaksin, e legittimò un governo militare corrotto e anni di paralisi politica.
Questa volta, l’amministrazione Obama dovrebbe chiarire che non intende tollerare un colpo di stato, anche se il governo di Abhisit cade o perde in eventuali elezioni. Se ad esempio si verificasse un colpo di stato, Washington dovrebbe essere pronta a cancellare la annuali esercitazioni militari congiunte con la Thais, denominate Cobra Gold. Washington inoltre dovrebbe chiarire che si aspetta da Abhisit, o da ogni altro eventuale governo thailandese, che tenga le elezioni entro la data annunciata, anche ove tornasse al potere un populista tipo Thaksin.
Molti funzionari thailandesi, ma anche alcuni funzionari americani, sostengono che gli Stati Uniti non dovrebbero adottare una simile “linea dura” per la democrazia in Thailandia, dato il rischio che la vittoria dei rossi spinga il governo di Bangkok più vicino alla Cina. Questo era uno dei motivi essenziali dell’appoggio americano al colpo di stato nel 2006. Ma Washington non può ingaggiare una corsa al basso con la Cina sul terreno dei diritti umani, e in ogni caso, gli Stati Uniti sono ancora in grado di fornire forme di cooperazione – in particolare, una qualitativa cooperazione militare che i thailandesi non possono ottenere dalla Cina.
Una soluzione della crisi in Thailandia è urgente. Se il governo e i manifestanti non recedono in fretta dal loro scontro, nuova violenza e un altro golpe, sono quasi assicurati. Visto che l’ultimo colpo ha fatto arretrare la democrazia tailandese di almeno un decennio, si può facilmente immaginare quanto disastrosa sarebbe oggi una stretta militare.
Tratto da: www.cfr.org – Council of Foreign Relations – Traduzione a cura della Redazione di Campo Antimperialista