lunedì, maggio 24, 2010

C'era una volta la rivolta









di Eugenio Roscini Vitali

Fonte:www.altrenotizie.org

«Lasciate che vi rassicuri sul fatto che il governo affronterà queste sfide e queste difficoltà nel piano di riconciliazione in cinque punti che avevo annunciato in precedenza». Questo è in pratica il messaggio con il quale il premier Abhisit Vejjajiva ha voluto rassicurare i thailandesi e la comunità internazionale dopo i fatti di Bangkok e l’operazione di pulizia e sicurezza con la quale l’esercito ha messo fine alla protesta delle camicie rosse. La road map promessa da Abhisit prevede un pacchetto di riforme in ambito politico, sociale ed economico e la creazione di una commissione indipendente che dovrà indagare sugli episodi di violenza che, per oltre nove settimane, hanno devastato la capitale.

Quello di cui non ha parlato il primo ministro sono gli effetti della rivolta sulla situazione economica del Paese e cosa potrebbe accadere se a Bangkok, e in gran parte delle province nord orientali, roccaforte degli oppositori, dovesse prender vita ad un movimento sotterraneo di guerriglia urbana. Abhisit non ha neanche fatto alcun accenno ad uno dei punti centrali della rivolta: le elezioni anticipati che i sostenitori dell’ex premier Thaksin Shinawatra chiedono da tempo e che lo stesso governo thai aveva offerto fino a poche ore prima che le truppe d’assalto e i mezzi blindati entrassero in azione.

Le elezioni anticipate si sarebbero dovute svolgere il prossimo 14 novembre, ma a “causa delle recenti violenze” il governo avrebbe per ora deciso di rimandare la consultazione a data da destinarsi. All’interno dell’esecutivo c’è comunque chi pensa che Abhisit non sarà in grado di restare ancora a lungo in carica, non almeno fino alla fine del mandato; sempre che permanga la stabilità delle ultime ore, è quindi probabile che il premier debba cedere alle pressioni dell’opposizione ed affrontare il giudizio degli elettori.

E’ comunque difficile pensare che le camicie rosse, dopo oltre due mesi di protesta, decine di morti e migliaia di arresti, abbiano deciso di mettere la parola fine ad una rivoluzione sociale che ha conquistato la simpatia di gran parte della dell’opinione pubblica occidentale. Ripreso il controllo del cuore finanziario della capitale e del Central World, l'enorme centro commerciale diventato simbolo del boom economico che negli anni ‘80 e ‘90 tracciò il solco delle disuguaglianze tra i neo-capitalisti e le masse contadine della provincia, il governo deve ora far fronte alle critiche della comunità internazionale.

E deve anche giustificare un uso sproporzionato della forza, compresa la morte del fotografo italiano Fabio Polenghi e del cameraman giapponese Hiro Muramoto, morti mentre riprendevano gli scontri tra camicie rosse ed esercito, e degli altri sei giornalisti rimasti feriti. Abhisit dovrà anche trovare una valida giustificazione per l’irruzione della polizia all'interno del tempio Wat Panum, per lo stato di emergenza imposto in 23 province, per la decisione con la quale sono state oscurate Twitter e Facebook, istrituita la pena di morte e censurate le televisioni nazionali.

Dovrà anche cercare di convincere gli investitori che il nordest è sotto il controllo delle autorità e che gli attacchi dei manifestanti alla sede del governo provinciale di Udon Thoni e ai municipi di Chang Mai e Chang Rai sono solo stati casi isolati, come isolate sarebbero le manifestazioni antigovernative scoppiate nelle province di Khon Kaen, Roi Et, Si Sa Ket e Ubon Ratchathani.

Per gli Stati Uniti Bangkok è un alleato prezioso, un partner strategico che Washington ha usato per anni in chiave anti-comunista e che ora sfrutta come argine all’inesorabile boom economico cinese. E’ per questa ragione che nel 2006 la Casa Bianca aveva appoggiato il golpe che ha portato all’estradizione dell’ex premier Thaksin, amico di Pechino e leader delle camicie rosse. Allora l’accusa mossa al miliardario thailandese era quella di essersi arricchito a scapito delle classi povere della società, ma in realtà Thaksin aveva ben altra colpa: non apparteneva alla grande oligarchia thai vicina al re Bhumibol Adulyadej.

Oggi neppure il monarca sembra però in grado di ridare stabilità e futuro ad un paese diviso tra gerarchia elitaria e masse rurali, un paese che paga ancora gli effetti del vecchio sistema feudale e le conseguenze dello scontro tra potere militare e forze democratiche. Una storia fatta spesso di sangue che passa attraverso l'instabilità di una nazione che tra il 1932 e il 1987 ha dato vita a quattordici Costituzioni, che ha spesso sofferto gli effetti dei colpi di stato e che è stata indebolita dal succedersi nel tempo di diversi regimi.

Bhumibol, che con il suo intervento mise fine alle crisi del 1973 e del 1992, sta ormai perdendo potere: il re non esercita più quella enorme forza morale che gli ha permesso di regnare per 64 anni e intorno alla quale è cresciuta una classe dirigente fatta di burocrati e militari arricchiti. Personaggi che, pur di mantenere il potere e gli enormi privilegi raggiunti, sarebbero anche pronti a voltargli le spalle: attendere la morte del “grande” per dare vita ad un nuovo corso che prevede l’allontanamento dell’erede al trono, il principe Maha Vajiralongkorn, che non ha certo i consensi del padre, e pone fine al Regno. Un’idea accarezzata dallo stesso Abhsit che ha gia parlato della necessità di un nuovo corso e di una monarchia stanca che non riesce a stare al passo con i tempi.

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