giovedì, luglio 09, 2009

Della VERA violenza in Thailandia non si parla mai!


Il sud della Thailandia brucia

Nelle province dove è attiva una ribellione separatista, in giugno è riesplosa la violenza

Mentre le manifestazioni dei "gialli" o dei "rossi" hanno occupato per settimane le pagine dei giornali di tutto il mondo, del vero pericolo di violenze in Thailandia negli ultimi cinque anni non si parla quasi mai. Eppure la situazione nelle province meridionali a maggioranza musulmana, dove una ribellione separatista ha causato oltre 3.600 morti dal 2004 a oggi, è sempre più turbolenta: solo a giugno si sono contati circa 50 morti. E il governo di Bangkok è lontano dal trovare una soluzione.

Dopo alcuni mesi di relativa calma, da fine maggio le province di Yala, Narathiwat e Pattani - a poche centinaia di chilometri dalle più famose mete balneari thailandesi - sono di nuovo in fiamme: un giorno un ordigno esploso in un mercato, un altro un'imboscata tesa ad alcuni abitanti dei villaggi, oppure un agguato contro un insegnante buddista. A volte le vittime vengono decapitate dopo aver sofferto tremendi abusi. Tre settimane fa, inoltre un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco in una moschea di Narathiwat, uccidendo 11 persone. Mentre nessuno è stato portato davanti alla giustizia, e nonostante le promesse di riconciliazione del premier Abhisit Vejjajiva, il sangue continua a scorrere quasi quotidianamente.

E' una guerriglia oscura: il movimento ribelle viene chiamato col nome "Combattenti per la liberazione di Pattani", ma non ha né un simbolo né un leader riconosciuto. Non è neanche chiaro quale sia l'obiettivo finale: se solo una maggiore autonomia, l'indipendenza o una unione con la Malaysia. Ma è un fatto che quell'angolo sud-orientale di Thailandia, un califfato annesso a inizio Novecento dopo un accordo con gli inglesi, sia sempre stato diverso dal resto del Paese. Quasi tutti gli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay: è una regione che la grande maggioranza dei thailandesi non visita mai, costantemente percepita come pericolosa. I pochi buddisti che ci vivono tendono a lavorare per conto dello Stato. Ed è per questo che tra gli obiettivi dei ribelli ci sono gli insegnanti, i "volti" del governo di Bangkok, che rappresentano da soli l'11 percento delle vittime. Ormai vanno a lavorare scortati dall'esercito, ma neanche questo basta a fermare le imboscate.

Protetto da uno stato di emergenza dichiarato nel 2005, che lo mette al sicuro da qualsiasi azione giudiziaria, l'esercito thailandese ingaggia sporadici scontri con i ribelli. Ma se la forte presenza di truppe impedisce un maggior numero di attentati, dall'altra radicalizza ancora di più la popolazione civile, che condivide le ragioni del risentimento dei ribelli contro Bangkok; per non parlare di sentenze che assolvono le autorità in toto, come quella per la strage di Tak Bai. Nel calderone delle violenze, inoltre, spesso non è chiaro chi sia il responsabile. Non sono solo imboscate e vendette reciproche tra musulmani e buddisti, o tra ribelli e "collaborazionisti": attentati come quello della moschea di Narathiwat vengono attribuiti genericamente a paramilitari o teste calde all'interno delle forze armate.

Alcuni analisti collegano i ribelli alla rete di al Qaeda, ma l'opinione prevalente è che il movimento rimanga una realtà prettamente locale. In giugno, tuttavia, un rapporto dell'International Crisis Group ha denunciato l'uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre province, al fine di reclutare nuovi combattenti. Il primo ministro Abhisit, il cui Partito democratico è radicato in particolare nel Sud, ha promesso un piano di sviluppo per la regione, storicamente trascurata da Bangkok. Ma anche se raggiungesse l'effetto voluto, dovranno passare diversi anni. Intanto le violenze continuano.

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